Le cammina a fianco la mattina presto, passo dopo passo.
La guarda, allungata dalla prima luce; esile, fine. Così stilizzata le ricorda una linea.
Ciao Selene, ma cosa cammini che sei già così magra…
La apostrofano così i rari conoscenti che incontra, a quell’ora così acerba. Ma lei non procede a passo di marcia per diminuire il suo peso. Sa bene di essere magra, troppo magra. Del resto mangia pochissimo, considerando con attenzione speciale ogni boccone ingerito, abituata ormai ad evitare gli alimenti che non riesce a digerire o che, ancora peggio, le riempiono la pelle delle braccia e del collo di minuscole vesciche acquose.
E’ stata così fin da bambina. Allora ogni pasto rappresentava un piccolo dramma familiare.
Sua madre, povera donna, tutti i giorni si inventava pietanze diverse e strategie nuove per farle ingerire qualcosa. Lei scappava, si nascondeva sotto il letto o, nella stagione buona, correva in cortile, nella speranza di non venire raggiunta. Ma la mamma, oh, lei non si arrendeva, disposta a fare chilometri con il piatto stretto in una mano e la forchetta con il boccone infilzato nell’altra, e si inventava storie, la chiamava con dolcezza, cercava in ogni modo di attirarla a sé.
C’erano giorni che il pranzo terminava a pomeriggio inoltrato, e in tutto quel tempo lei accettava sì e no porzioni da uccellino…
Ed eccola.
Mentre cammina, ora, si guarda; vede quell’ombra sottile accanto a sé, priva di impurità. Si adagia perfetta sul selciato, sfila elegante sui fusti del granturco, muraglie invalicabili in questa stagione estiva, si deposita sulle siepi e impeccabile prosegue sulla strada che la riporterà a casa.
Ogni mattina Selene si alza ed esce a camminare. Ha stabilito un itinerario che percorre uguale tutti i giorni per dieci chilometri.
La pista ciclabile che la fa arrivare ai campi, un lungo giro in mezzo all’erba e alle rogge, su sentieri di campagna addomesticati dal passaggio dei trattori; la strada, la sfilata di cancelli sui viali d’accesso alle villette ordinate della zona nuova del paese e infine la piazza, il vicolo, il portoncino di casa sua.
Quando ci arriva si sente vuota. E’ di quello che ha bisogno. Quel corpo piccolo e magro la imprigiona, lascia accumulare nei suoi stretti recessi una potenza feroce che non sa esprimere.
Dopo, Selene ogni giorno sale sul treno, raggiunge il centro commerciale specializzato in abiti e attrezzature per lo sport dove risponde al telefono per sei ore, dal lunedì al sabato, e in treno torna a casa. Indossa sempre pantaloni a cinque tasche, maglietta e scarpe da ginnastica, più pesanti durante la stagione fredda, verdi, sempre, e sempre con la griffe del marchio per cui lavora.
A casa ha molti libri da leggere e voluminosi gomitoli di lana e di cotone colorati in ogni sfumatura del verde, lunghi aghi di acciaio per lavorare ai ferri e aghi più piccoli, ritorti, per fare l’uncinetto.
Ha una dispensa ben fornita di alimenti privi di glutine, sale, grassi, oli, zuccheri con cui compone l’unico pasto della giornata, che consuma sempre prima che venga buio.
Durante il giorno Selene è per tutti la piccola Selene. Anche il nome le hanno dato sottile. Lo si può pronunciare senza quasi neanche aprirla la bocca, le tre sillabe soffiate fuori dalla lingua, un sibilo cui basta un pertugio strettissimo per risuonare.
Ma di sera, a casa, il mondo che si tiene dentro reclama il suo spazio. Mentre furiosa infilza punti a legaccio e catenelle, aumenta e diminuisce maglie in precisissimi raglan, attorciglia sofisticati punti vaporosi, sente ribollire nella pancia una massa confusa, eterogenea e disordinata di pensieri e sentimenti. La sua energia feconda che sente imprigionata dentro di sé.
E allora aumenta il movimento delle dita e alacremente sferruzza, produce a raffica maglie basse e alte, confeziona sciarpe, coperte, tende, borse, scialli mentre sposta la luce della lampada finché non ritrova la propria ombra, maestosa, allungata sulla parete al suo fianco.
Sì, perché Selene vorrebbe essere lei, la sua ombra.
Vorrebbe liberarsi di quel corpicino permaloso e stretto che le rende impossibile spalancarsi per accogliere il nutrimento che l’universo promette, vorrebbe fidarsi dell’acqua che in questi giorni, la mattina, allaga il mare del granturco tanto più alto di lei, e assorbire la vita che sente gorgogliare nei suoi profondi meandri, strepitosa e spaventosa, chiusa a lucchetto dentro di sé. Vorrebbe potersi aprire e sparpagliare intorno a sé semi fertili, generosi. Raccontare storie.
Selene lo sa di contenere storie, ma le labbra della sua boccuccia a cuore non si aprono mai per sfogare parole. Le cuce strette fra un punto e un altro, mentre impetuosa manovra i suoi aghi che nell’irruenza del gesto si scontrano, producendo un suono metallico che richiama alla mente i rumori della battaglia.
L’avevo osservata a lungo, nascosto in mezzo ai filari del granturco. Sapevo a che ora si sarebbe trovata là, e ogni mattina ci andavo anch’io. Le guardavo i piedi, così piccoli e veloci nel lasciare un’orma via l’altra la traccia dei suoi passi, mentre il busto, leggermente reclinato in avanti, pareva voler trapassare l’aria.
Quando decisi che era giunto il momento, una mattina le sbarrai il cammino; fermo, seduto proprio in mezzo alla pista ciclabile.
Solo, come sola é lei, che di colpo arresta il suo passo. Ha un po’ paura, e anch’io ne ho.
Mi guarda: un cane bianco a pelo raso, solido, muscoloso, fiero; metà muso mascherato da una macchia nera.
Sento che tutto di me, il collo possente, la mandibola sviluppata, le orecchie corte salde e immobili, le ispira la parola potenza.
Anch’io la guardo: un esserino efebico colorato di verde con gli occhi puntati su di me. Non voglio che si spaventi, mi sollevo piano facendo forza sulle zampe anteriori, e la precedo. Lei resta per un attimo indecisa, sospesa sulla scelta da compiere, ma poi ricomincia a camminare. Procediamo allo stesso passo, la distanza fra noi non aumenta né diminuisce. Voglio farle capire che desidero solo accompagnarla, quell’intervallo fra noi mi permette di annusare indisturbato le sue emozioni. So già chi è, l’ho decifrata a poco a poco ogni mattina dall’inizio della stagione. Ora devo comprendere come avvicinarla.
Procediamo uniti, ma senza avvicinarci, sul percorso che dalla ciclabile porta alla campagna, rimango con lei fino a quando scorgo i cancelli delle case a schiera appena fuori dal paese. Allora mi rituffo fra i fusti del mais. Andiamo avanti così per qualche giorno, lei ora se l’aspetta di trovarmi all’imbocco della pista ciclabile e io sono là. Camminiamo, ma adesso le sto dietro, vicino abbastanza da farle capire che la seguo. Passo dopo passo seguo proprio lei.
Ci sono io, fra lei e la sua ombra.
La sera a casa, mentre sferruzza, Selene ora ha un pensiero cui badare. Si domanda chi sono, da dove vengo. Sono stato abbandonato? sono scappato? perché ogni mattina mi trova ad aspettarla?
Durante il giorno la piccola Selene continua la sua vita di sempre. Quando scende dal treno però, dopo il lavoro, ha preso a fermarsi in qualche negozio prima di rientrare. Porta a casa pane fresco, frutta colorata e saporita, un po’ di gelato. E digerisce Selene, mentre la sua pelle via via più brunita rimane compatta e liscia.
Giorno dopo giorno, di mattina presto, ci avviciniamo. Mi ha dato un nome, mi chiama Bortolo.
Io le cammino al fianco, zampetto sulla sua ombra e quando arriviamo in campagna faccio il clown, le corro intorno, veloce sulle mie zampe, le porto bastoni di legno da lanciarmi, le deposito ai piedi sassi.
Le prime volte lei si spaventava. La forza delle mie corse le mulinava intorno una spirale di polvere, agitava l’aria, che le frusciava fresca sulla pelle. Ostinato ho continuato a portarle legnetti finché lei non ha ceduto.
C’è voluto un po’ per vederla sorridere, e un altro poco ancora perché cominciasse a giocare e a ridere a bocca aperta.
Selene impara dalla mia energia, faccio di tutto per fargliela respirare e giorno dopo giorno diventa anche sua.
Adesso è la prima a lanciarsi nella corsa quando ci incontriamo, tutti e due desiderosi di scaraventarci senza respiro in mezzo alla campagna.
Una volta, scendendo dal treno di ritorno dal lavoro, Selene si compra un quadernetto.
Piccolo, con la copertina verde smeraldo.
La sera, a casa, dopo aver cucinato una buona cena tutta per sé, Selene mi pensa.
E piano piano mi mette al mondo.. Scrive. Mi inventa: non esistevo prima, e neanche lei esisteva..
Si dipana così la libertà di Selene, che altro non è che il potere delle storie.
Alla luce limpida del mattino, la forma stilizzata di un cane dalla struttura quadrata, il collo possente, le orecchie corte immobili, le cammina a fianco la mattina presto, mentre mette un passo avanti all’altro.
Selene la guarda, ormai rivelata. Accanto alla sua, l’ombra di Bortolo si allunga sul sentiero e scorre discontinua sui monconi del granturco ormai segato.