Manuel Vilas, In tutto c’è stata bellezza, Guanda 2018 (pp. 409, euro 19)
Perché si racconta dei propri genitori? ci si chiedeva dopo aver letto Tra loro, di Richard Ford (in questi Appunti il 30 luglio 2017). Per capire chi erano, dice Ford: “io cerco di affrontare la loro diversità ed essi mi eludono, come fanno tutti i genitori”. Perché i genitori creano per noi “una sorta di ‘separatezza congiunta’ e un utile mistero”. Perché, sostiene Vilas, “Tutto scompare tranne quel mistero, che è il mistero della volontà di essere, della volontà che ci sia un altro diverso da me; su quel mistero si basano la paternità e la maternità”. Parole simili, ma per Ford i genitori sono quello che loro hanno fatto, le loro scelte, la loro vita; per Vilas sono la ragione nascosta del proprio fare, o non fare, e continuano a segnare la trama della propria vita: “Tutto quanto successe a mio padre si ripercuote sulla mia vita con una precisione millimetrica. Stiamo vivendo la stessa vita in contesti diversi, però è la stessa vita.” “Il suo ‘cosa parto a fare?’ – era commesso viaggiatore, il padre – arriva a me in un ‘cosa scrivo a fare?’”. Ma non meno tenace è l’identificazione con la madre: “Tutto il mio passato sprofondò quando mia madre fece la stessa cosa di mio padre: morire. (…) Ciò che mi univa a mia madre era e continua a essere un mistero che forse riuscirò a decifrare un secondo prima della mia morte. (…) Chiamo madre il mistero generale della vita.”
E’ attraverso la lente fornita dal legame insuperabile con i genitori che si articola un’autobiografia discontinua, ricorsiva, fitta di cortocircuiti verbali che mimano il percorso solo apparentemente casuale delle associazioni libere (“Quando il cadavere di mio padre è bruciato, si è fuso il dente d’oro? (…) Si è tenuto il dente d’oro il medico legale che ha fatto l’autopsia a mio padre togliendogli il pacemaker? Ha fatto un pacchetto, dente d’oro e pacemaker? L’oro e il cuore? Mio padre ha avuto un cuore d’oro.”). “Mia madre era una narratrice caotica – ammette del resto l’autore. Anch’io lo sono. Da mia madre ho ereditato il caos narrativo”.
Studente, poi insegnante, l’alcolismo poi superato, il matrimonio, il divorzio, due figli che si rivelano ben presto due sconosciuti: finisce solo, il protagonista, e scrive, di sé, di loro, consapevole che “Il passato di qualunque uomo o donna di più di cinquant’anni si trasforma in un enigma. È impossibile risolverlo. Non resta che innamorarsi dell’enigma”. L’enigma di una famiglia che non si può annoverare fra quelle felici: “Eravamo una famiglia catastrofica, e allo stesso tempo avevamo la nostra originalità”, sintetizza l’autore, e sembra confermare l’aforisma di Tolstoj. Se il padre, uomo dinamico e volitivo per altro, era soggetto a ricorrenti “crolli della volontà”, la madre è stata “una donna-dramma”, i cui mali “erano enumerativi. Enumerava dolori, alcuni di un’originalità immensa.” Afflitta da ipocondria e malinconia, come chiunque del resto quando ha oltrepassato la metà della vita e “dedica il proprio tempo a favoleggiare sul tipo di malattia che lo strapperà al mondo. Simula e ordisce storie sulla propria morte che vanno dal cancro all’infarto, dalla morte improvvisa all’anzianità interminabile.”
La morte, la caducità, la “vanità” di tutto e tutti (anche delle idee e della politica, nella Spagna postfranchista) è l’altro filo conduttore (l’altra faccia?) del legame inestinguibile con chi ci ha messo al mondo, e giunge puntuale a svuotare di senso il presente: “Un giorno o l’altro ogni uomo finisce per affrontare l’inconsistenza del suo passaggio nel mondo” e per constatare “l’inutilità di tutte le conversazioni umane che sono state e che saranno”, leggiamo già nella prima pagina. La “transitorietà di tutto” è uno “scandalo” insopportabile, ed è un “transito scriteriato” quello che va dal movimento vitale al rigor mortis”.
Eppure, in questo fiume che non risparmia nulla e nessuno, in cui “Le cose non resistono come facevano anticamente, quando un frigorifero e un televisore duravano trent’anni”, e “la gente non seppellisce elettrodomestici vecchi” anche se c’è chi “ha passato più tempo accanto a un televisore o a un frigorifero che accanto a un essere umano”, ebbene: anche in questo fiume rapinoso c’è stata bellezza. “In tutto c’è stata bellezza”: che cosa nasconde quest’affermazione ricorrente, inattesa, intempestiva? Lo sforzo di abbandonare un punto di vista centrato su se stessi? di venire a patti con il senso tragico del passato e della morte? di accettare la vita, sia pure paradossalmente? Lo farebbe pensare quella che si può considerare una conclusione, anche se precede di parecchie pagine la fine del romanzo. Un romanzo che sa conservare fino all’ultimo la sua carica di ironia sofferta: “Può darsi che alla fine un uomo si innamori della propria vita. È questo che mi sta succedendo. (…) quello che non potevo immaginare è questa riconciliazione con me stesso. (…) Può darsi che alla fine a essere sconfitta sia la solitudine. E può darsi che alla fine tu scopra che l’unico essere umano che non è un’assoluta rottura di palle sei tu.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.