Halldóra Thoroddsen, Doppio vetro, Iperborea 2019 (pp. 128, euro 15)
Il lavoro “è regredito all’automazione e ormai si occupa esclusivamente della propria crescita esponenziale”, “Il mercato divora con una forza finora sconosciuta, è diventato un predatore globale e nessuno riesce a contenerlo. Non è solo l’ambiente a soffrirne, siamo tutti a rischio di estinzione. Noi e tutto ciò che abbiamo di più bello, l’immaginazione e la solidarietà”: chi è l’autore di diagnosi critiche tanto radicali?
Non un sociologo o un filosofo. È una donna di settantotto anni, che da tempo vive ritirata nella sua casa, osserva il mondo ma, “In fondo è una donna da soglia di casa”. Alla quale comunque “importa di come va il mondo” e che “ha a cuore che i giovani se la cavino e possano godersela un po’”. Perché il mondo non è dei vecchi come lei, è delle “nuove generazioni”, che della “saggezza stantia di una vecchia come lei non sanno che farsene”. È così: “ogni generazione si rintana nel proprio settore, infanzia e vecchiaia sono destinate all’isolamento. Urliamo nella nostra caverna e sentiamo solo la nostra eco”.
Cionondimeno, questa donna “Non vuole morire proprio adesso che sono in corso tanti cambiamenti. Vuole poter continuare a seguirne gli sviluppi. (…) Invece di scuotere la testa come una garbata vecchietta e lasciare che al futuro ci pensino gli altri, è avida di capire.”
Di capire, ma anche di sentire, di provare sentimenti. E qui la storia richiama l’Haruf di Le nostre anime di notte*, perché il tema è quello dell’amore fra vecchi, come quello che sboccia fra la protagonista e un vicino settantacinquenne. Titubante lei, all’inizio (“non può certo esporsi a una pena d’amore alla sua età”), ma poi poco a poco persuasa – da una voce interiore – che “i desideri non si avverano in un animo pavido”: “Gli telefona e gli dice sì”. Una storia intensa, felice, la loro, proprio perché calibrata sulla loro età (“non fingono di essere diversi da quello che sono, di serbare ancora il vigore di un tempo”) e forte di una precisa consapevolezza, riassumibile nel fatto che “L’amore tra persone anziane non è un amore coniugale sano, che ambisce a riempire la terra”.
Una storia intensa, dunque, ma breve: lui muore prima che sia stato loro assegnato l’appartamento in una residenza per anziani dove volevano vivere, insieme. E lei? Dopo il dolore della perdita, “La sofferenza non la travolge più a ondate. Ormai la conosce, ci si è abituata. Ora riesce a osservarla dall’esterno, a salutarla con un cenno del capo. Certo che soffriamo, dal momento che ci troviamo in questa tragedia greca sappiamo che la fine è inevitabile.”
E allora non resta che prenderne atto, aderendo alla propria condizione, tornando ad osservarli, gli altri: “Là fuori tutti stanno cambiando il mondo. Lei resta in disparte, seduta alla finestra”. Il che non significa affatto chiudersi in se stessa, prova ne sia che quando i cittadini islandesi protestano contro il governo nel periodo della crisi economica che non ha risparmiato l’Islanda, anche lei va in piazza con mestolo e tegame a manifestare sonoramente il proprio disappunto, partecipe al punto da chiedersi se “finalmente sia diventata parte della collettività, anche se per un brevissimo momento”. Per poi tornare tuttavia dietro la sua finestra, dietro il doppio vetro da cui guarda il bambino che gioca con la sabbia, e sentire che la sua esperienza “non le arriva più di riverbero”, ma che “lei è l’esperienza”; sentire che “Si fonde con il mondo che sta fuori”, e dunque “È compiuta”.
Scrivere di vecchiaia in un Occidente sempre più vecchio testimonia dell’apertura del romanzo agli avvenimenti davvero epocali che viviamo, ma Thoroddsen fa di più. Ci racconta di un cammino umano compiuto senza infingimenti, e senza indulgenze né accanimenti verso di sé, fino alla fine.
* K. Haruf, Le nostre anime di notte, NNE 2017, in questi Appunti di lettura il 19 marzo dello stesso anno
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.