John Steinbeck, Uomini e topi*, Bompiani 2019 (pp. 128, euro 14)
Capita così, quando un romanzo mi ammalia, finisce che mi butto a leggere tutto del suo autore, vittima di una sorta di famelica curiosità, come alla ricerca, nella sua traccia letteraria, del suo percorso interiore. Così è stato che ho letto Uomini e topi.
Mi era stato presentato come un romanzo duro, crudo, che non lascia spazio alla speranza, ma ci ho trovato un mondo di pietà, uno sguardo acuto sull’invisibile.
Steinbeck lascia la miseria sullo sfondo e punta lo sguardo sulla relazione che si stabilisce fra due braccianti stagionali che migrano da un ranch all’altro, in una sorta di nomadismo.
Lennie, dotato di una stazza imponente associata a un’incredibile forza fisica che la sua mente insufficiente non sa gestire. Non sa bastare a se stesso e si mette inconsapevolmente e ripetutamente nei guai. Un gigante con un cuore da bambino, un po’ tocco, lento di testa. Ma, come dice George, non c’è bisogno di troppo cervello per essere un bravo ragazzo.
George gli è amico dall’infanzia: piccolo e minuto, ma acuto di mente; si prende cura di lui, lo protegge da sé e dalla crudeltà del mondo di fuori.
Chi abbia mai avuto a che fare con persone affette da disabilità mentale, riconosce in Lennie molte caratteristiche: la scarsa o nulla coscienza della propria forza, l’incapacità a dosarla, un’ingenuità disarmante, l’attaccamento a oggetti simbolo, come fazzoletti annodati, monete, pezzi di carta che rivestono un misterioso ruolo, per i quali farebbero follie. Per Lennie si tratta di topolini, cagnolini o coniglietti dal pelo morbido. Li acchiappa e li accarezza con le sue mani grandi e pesanti, li accarezza fino a ucciderli. Ma li uccide come per sbaglio, preda del forte desiderio di sentire il contatto con il pelo morbido, di coccolarli.
Nessuna malvagità in lui ma, come è ovvio, i suoi gesti goffi e smisurati, vengono regolarmente mal interpretati. È George che lo tira regolarmente fuori dai guai, dai tentativi di linciaggio, e che con lui fugge verso un nuovo lavoro: una nuova raccolta in una nuova fattoria, dove Lennie, per un motivo o per un altro, tornerà a mettersi nei guai.
Li tiene insieme un sogno che George ripete quasi ossessivamente all’amico per tenerlo calmo: un giorno metteremo insieme dei soldi e avremo una casetta, un paio di acri con una mucca e qualche maiale e… e vivremo dei frutti della terra, e avremo dei conigli, avremo un orto, e un capanno per i conigli e per i polli. E quando d’inverno piove manderemo al diavolo il lavoro e accenderemo un bel fuoco nella stufa e staremo seduti lì ad ascoltare la pioggia che cade sul tetto.
Perché – spiega ancora George – i tipi come noi, che lavorano nei ranch, sono le persone più sole al mondo. Non hanno famiglia, non appartengono a nessun posto. Arrivano in un ranch e mettono insieme un gruzzolo, poi vanno in città e fanno fuori il loro gruzzolo, e puoi star certo che la prima cosa che fanno è mettersi a sgobbare in un altro ranch. Non hanno niente cui aspirare.
È allora che Lennie, estasiato, lo incalza a continuare la storia che sa a memoria, ma che vuole recitata dall’amico, come una fiaba raccontata a un piccino per prendere sonno: ora dimmi quello che tocca a noi.
Per noi non è così… Perché io ho te che mi stai dietro, e tu hai me per star dietro a te… noi abbiamo un avvenire. Possiamo parlare con qualcuno al quale importa di noi. Non dobbiamo starcene seduti in un bar a buttar via i soldi solo perché non abbiamo un altro posto dove andare.
Due uomini non più soli che si prendono cura l’uno dell’altro: il piccolo protegge il gigante dai suoi movimenti maldestri e dalle asperità della vita, il grande dà senso al continuo migrare del piccolo, dà all’amico la forza del sogno che lo tiene lontano dall’abbruttimento dell’alcool e dei bordelli.
Steinbeck descrive questo accudirsi l’un l’altro con una delicatezza magistrale. E’ questo l’un l’altro che fa la differenza a mio avviso. Altre letture del testo si sono concentrate sulla pietà di George nei confronti dell’amico poco sveglio, senza vedere l’altro verso della medaglia, non meno ornato di cura e compassione.
Lennie apre a George la possibilità di una vita dignitosa ma, ancora di più, lo tiene sul bordo di un sogno, un sogno che George da solo non reggerebbe. È Lennie che consente a George di scoprire dentro di sé l’amore, la pietà, l’amicizia. Nessuno l’ha mai amato come Lennie, nessuno si è mai affidato a lui senza riserve come l’amico d’infanzia, nessuno ha saputo tenerlo attaccato al lato buono dell’esistenza come lui.
È quello che capita di scoprire nella relazione con chi affronta la vita meno attrezzato di noi, con chi pensiamo di aiutare, di guidare e che spesso invece ci conduce verso una comprensione profonda, oltre il visibile, oltre noi stessi, e ci fa fare i passi che contano.
E siamo all’epilogo: George, ho fatto ancora una cosa brutta. Non importa – disse George, e tornò al suo silenzio.
George è costretto a un gesto crudele, ma compassionevole. E ancora incanta l’amico con il mantra del loro sogno: avremo un posticino tutto nostro… avremo una mucca e forse avremo un maiale e dei polli… e nel campo avremo… un piccolo appezzamento d’erba medica…
Per i conigli – grida Lennie.
Per i conigli – ripete George.
E io baderò ai conigli.
E tu baderai ai conigli.
E vivremo dei frutti della terra.
Come talvolta avviene, un attimo discese e si librò e durò molto più che un attimo. E il suono tacque e il movimento tacque, per molto più che un attimo.
*All’origine del titolo del racconto una poesia di Robert Burns che recita:
«Ma topolino, non sei il solo,/ A comprovar che la previdenza può esser vana:/ I migliori piani dei topi e degli uomini,/ Van spesso di traverso,/ E non ci lascian che dolore e pena,/ Invece della gioia promessa!».