Louise Penny, Case di vetro. Le indagini del commissario Armand Gamache, Einaudi 2019 (pp. 552, euro 15)
Dopo cinquanta pagine non è ancora successo niente: si può reagire così alla lettura del primo dei romanzi dedicati dall’autrice canadese al commissario Gamache. Il primo pubblicato in Italia di ben quattordici. Sì, la lentezza: è come guardare un film in bianco e nero di qualche decennio fa, uno di quei romanzi che si permettono di lasciare che i personaggi si costruiscano per minime pennellate successive. Così avviene per il protagonista, e proprio il processo che a poco a poco ci rende familiare questo personaggio è al centro della narrazione. Armand Gamache “credeva fermamente alla legge, aveva lavorato tutta la vita a servizio della giustizia, ma l’unica a cui sentiva di rendere conto era la propria coscienza.” E la storia si può leggere, infatti, anche come l’assommarsi delle circostanze che portano questo integerrimo poliziotto a far sua senza esitazioni o mezze misure la massima di Gandhi – secondo la quale “Esiste un tribunale più alto di quello degli uomini, ed è quello della coscienza. Il primo tra tutti i tribunali” – e a metterla in pratica correndo sul limite di quella che potrebbe apparire assenza di scrupoli. Quella stessa che qualcuno imputò a Churchill quando lasciò che i nazisti bombardassero Coventry per impedire che potessero rendersi conto che loro, gli inglesi, avevano decifrato il loro codice segreto: non opporsi alla morte di centinaia di persone per scongiurare quella di un numero molto maggiore di innocenti. Lasciare che un carico ingente di droga passi il confine fra il Canada e gli Stati Uniti pur avendone avuto notizia non è diverso: servirà al commissario a decapitare i due potenti cartelli, americano e canadese, dei trafficanti di morte.
Senonché, questo è solo un ramo della vicenda, l’altro si svolge in un tranquillo, minuscolo villaggio fuori da Montreal, lo stesso i cui abitanti – non numerosi, cui si aggiungono qualche turista e anche Gamache e la sua famiglia – sono sconvolti dalla comparsa di una figura misteriosa, addobbata come la Morte nell’iconografia tradizionale: un cobrador, un misterioso personaggio la cui presenza, muta e di per sé innocua, suscita in ciascuno dei residenti il rimorso per un atto che avrebbe potuto evitare e invece ha compiuto, o si è colpevolmente astenuto dal fare. Tutti colpevoli, ma qualcuno – uno in particolare – più degli altri.
Il rapporto fra la ricerca dell’identità del personaggio mascherato e, poi, di quella che viene ritenuta dal paese come la sua vittima, da un lato, e dall’altro la lenta, paziente lotta ai padroni del mercato della droga, resta in sospeso per gran parte delle oltre cinquecento pagine del romanzo, persino agli occhi di personaggi decisivi come la giudice che, a fatti avvenuti, sta conducendo un processo nel quale, inspiegabilmente, il procuratore e il commissario chiamato a testimoniare, contrariamente a quanto sarebbe naturale, sembrano schierati su fronti opposti. L’andirivieni fra la cronaca del processo e quanto avviene al villaggio è frutto di una tecnica narrativa consumata, che permette di tener ferma l’attenzione del lettore, oltre che su quanto avviene, sui risvolti inaspettati del carattere di Gamache, uomo ironico, gentile, disincantato, ma al tempo stesso determinato, capace della pazienza lungimirante di uno stratega come dell’intervento tempestivo e se necessario violento del soldato: lo si scoprirà verso la fine, quando l’autrice dimostrerà di saper accelerare il ritmo narrativo fino alla tensione di un film d’azione. A colori.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.