Enrique Vila-Matas, Un problema per Mac, Feltrinelli 2008 (pp. 282, euro 19)
Un paradosso, a detta dello stesso Vila-Matas: un esordiente – anche se attempato imprenditore immobiliare fallito – che si propone di scrivere un romanzo postumo. Ma non solo: postumo e incompiuto. Non interrotto – dalla morte, come sarebbe giustificato pensare –, incompiuto, che è cosa diversa. Un libro che nasce all’insegna della falsificazione dunque, come del resto tutta la letteratura: “un modo di trasformare l’impossibilità di accedere a qualcosa di perduto in una possibilità o, quantomeno, di ricostruirlo, pur sapendo che non c’è più e che a nostra disposizione abbiamo solo la falsificazione”. Parole gravi, non fosse che – come tutte quelle che riempiono le pagine di questo romanzo – sembrano pronunciate per scherzo, per semplice amore del paradosso, appunto. Le parole di un aspirante scrittore che in cerca di un soggetto decide di riscrivere, migliorandolo, il romanzo di uno scrittore riconosciuto, suo vicino di casa, ma intanto, per farsi le ossa, si accontenta di tenere un diario. Il diario di questo suo cammino verso il momento in cui potrà considerarsi un vero scrittore. Anche se “puoi trascorrere anni a considerarti uno scrittore, tanto sicuramente nessuno si prederà il disturbo di venirti a cercare per dirti: ti stai illudendo, non lo sei.” Di qui si avvia la vicenda di questo ex imprenditore che non ci mette molto a rivelare di essere stato in realtà un avvocato, in una spirale di divertita falsificazione che non risparmia dunque neanche la sua identità, e che si dedica alla scrittura sapendo che “scrivere è tentare di sapere cosa scriveremmo nel caso in cui scrivessimo”, ossia che “in letteratura non si comincia perché si ha qualcosa da scrivere e a quel punto si scrive, ma il processo di scrittura propriamente detto è ciò che permette all’autore di scoprire cosa vuole dire.” Si tratta dunque, afferma programmaticamente l’autore, “di lasciarmi condurre alla scoperta del luogo in cui le parole mi vogliono portare.”
Un tracciato però c’è, ben chiaro, perché oltre alla falsificazione un’altra passione anima il protagonista: la ripetizione. È la ripetizione, del resto, a calarci nella vita, a “introdurci” nel tempo. Chi scrive non deve quindi temerla. Lo diceva anche Isak Dinesen. alias Karen Blixen: “La paura di ripetersi può sempre essere contrastata dalla gioia di sapere che si avanza in compagnia delle storie del passato.” Occorre coltivare il “piacere ripetitivo che non pregiudica nuove e inaspettate scoperte da parte di chi crea”, ed ecco allora la citazione, il rimando continuo ad altri autori che non può non richiamare Borges che in queste pagine vive anche grazie al tono di allusivo e a volte indecifrabile humour che le percorre. Fra i racconti scritti alla maniera di altri individuabili autori e che compongono il romanzo che il protagonista ha intenzione di riscrivere, ce n’è uno che dichiaratamente ripete Borges, e usa i suoi ricorrenti “stereotipi drammatici sottilmente parodiati”. Un romanzo sul romanzo, una scrittura che insegue la scrittura ma per sconfinare nella vita, perché ci sono “libri nei quali il lettore legge cosa gli sta capitando nella vita”. L’intreccio tra fatti reali e storie narrate ci accompagna in un gioco vertiginoso e sempre ironico fino alla fine, mettendoci a volte alla prova. Al punto da indurre l’autore stesso ad augurarsi “che il cielo dia pazienza al lettore” e gli permetta di seguire chi scrive fino all’epilogo della sua a lungo meditata sparizione nelle città e nelle oasi magrebine, dietro a una “lenta carovana di storie di voci anonime e di anonimi destini che sembrano confermare l’esistenza di racconti che si introducono nelle nostre vite e proseguono la loro strada confondendosi con esse.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.