Valérie Perrin, Cambiare l’acqua ai fiori, edizioni e/o 2019 (pp. 480, euro 11,99)
Una vita vissuta pienamente, non perché è capitata ma perché così la si è voluta vivere: affidandosi a quel che via via accadeva, agli amori e ai disamori, agli acquisti e alle perdite. Essere aperti agli altri, alle nuove esperienze che la vita propone – ci dice questo romanzo – non vuol dire cambiare rotta ad ogni incontro, non vuol dire annullarsi in ogni situazione nella quale ci si venga a trovare. Ma neanche significa vivere sempre sulla difensiva, opporre la volontà che nulla cambi ad ogni avvisaglia di mutamento.
Questa la filosofia di vita – mai dichiarata, ma praticata nei fatti – di Violette Touissant. Quanto ai fatti, è presto detto: “Facevo la guardiana di passaggio a livello, ora faccio la guardiana di cimitero. Assaporo la vita a piccoli sorsi, come un tè al gelsomino con un po’ di miele”. Violette sa quel che vuole, ma sa anche che non sono i progetti che si fanno a portartelo; inutile illudersi di poterla pianificare la propria esistenza perché scorra lineare, secondo regole stabilite. Meglio accettarla, anche quando se ne devono combattere le asperità, anche quando sembra di dovervi soccombere: “Sono stata molto infelice, addirittura annientata. Inesistente, svuotata. (…) Le mie funzioni vitali continuavano, ma senza un dentro, senza a mia anima (…). Ma siccome l’infelicità non mi è mai piaciuta ho deciso che non sarebbe durata”. Quando arriva, comunque, inutile chiudere gli occhi, che si tratti di ritrovarsi ad essere “vittime collaterali del progresso – l’automatizzazione del passaggio a livello rende lei e suo marito disoccupati – o a pagare per l’egoismo di un uomo grande e grosso che hai amato, con “la sensazione di appartenergli corpo e anima” – ma si è via via rivelato per il bambino mai cresciuto che sua madre ha voluto rimanesse. Inutile chiuderli neanche quando arriva il dolore più grande di tutti: l’incidente tragico e banale che ti toglie la bambina divenuta ragione di stare al mondo, una figliolina compagna di giochi che non smetteva di stupirti, e di tener viva la bambina che aveva continuato a vivere in te, nonostante tutto.
Saranno gli altri a salvarti: la vicina che hai aiutato quando era lei in difficoltà, il guardiano del cimitero in cui la piccola viene sepolta e che ti insegnerà il suo lavoro per poi cedertelo, l’uomo che nello stesso cimitero arriva per assolvere all’ultimo desiderio della madre e saprà farti tornare a immaginare l’amore. Altri esseri, ai quali Violette non si aggrappa, ma sa riconoscere per quanto “disadattata, spezzata” si senta, e accogliere non come soccorritori attesi, ma come simili con i quali tornare a realizzare lo scambio che è la vita, se è vita vera. Una vita che sa riprendere, e indurti a “ricominciare a dare l’acqua ai fiori”.
Come spesso capita, sintetizzare quel che un libro ti ha lasciato rischia di offrirne una fisionomia parziale, tanto da poter risultare falsata: la storia di Violette Touissant – narrata con una certa linearità nella prima parte, calata in un andirivieni di flashback, pagine di diario e lettere nella seconda – corre sul filo di un umorismo leggero quanto indefettibile che si annuncia sin dai titoli dei capitoli, parodie di epitaffi che grondano retorica funeraria in molti casi, capaci di fermare per un attimo l’attenzione del lettore in altri (Non sei più dov’eri, ma sei ovunque sono io, Le foglie morte si raccolgono a palate, i ricordi e i rimpianti anche). Ma è la vita che – circondata dai suoi gatti e dai compagni di lavoro, tre necrofori che a volte le sembrano i fratelli Marx – quotidianamente la protagonista conduce nel suo cimitero a riservare momenti nei quali il sorriso non può non affiorare: “La morte comincia quando nessuno può più sognare di te. È sulla tomba di Marie Deschamps, una giovane infermiera deceduta nel 1917. Pare che sia stato un soldato a deporre la targa nel 1919. Ogni volta che ci passo davanti mi chiedo quanto a lungo l’abbia sognata”. Oppure. “Prendersi cura del cimitero vuol dire prendersi cura dei morti che vi riposano e rispettarli. Nel caso non siano stati rispettati da vivi, che almeno lo siano dopo morti. Sono sicura che vi sono sepolti anche molti stronzi, ma la morte non fa distinzione fra buoni e cattivi. E poi, chi non è stato un po’ stronzo almeno una volta nella vita?”
A conti fatti, pare ci sia sempre una ragione per “ricominciare a dare l’acqua ai fiori”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.