«Non si può collocare un’opera così importante – qual è il Musil – in un contesto di degrado fatto di scheletri di capannoni». Tempestiva l’osservazione di recente espressa su questo giornale da Maurizio Pegrari. Occorre tuttavia ricordare che quanto attornia gli edifici destinati alla musealizzazione non è il risultato di un naturale, inevitabile degrado, ma della sistematica demolizione che negli anni scorsi ha raso al suolo fabbriche, cinte murarie, serbatoi pensili. I segni di un passato produttivo senza i quali il nuovo museo corre un rischio di non poco conto: lo spaesamento. Non a caso l’ipotesi – nella sua formulazione originaria, negli anni ’80 – di un museo della Brescia contemporanea, della sua modernizzazione e della sua industria, attribuiva al polo espositivo anche la funzione di centro di interpretazione di un contesto del quale si riteneva essenziale fossero conservate le presenze architettoniche più significative e la fisionomia complessiva. Le cose non sono andate così, appunto, ma non sono solo «scheletri di capannoni» ciò che resta dell’ex laminatoio che affianca il museo e degli edifici industriali pericolanti che si innalzano – non sappiamo per quanto ancora – appena a sud del museo stesso: un loro recupero, capace di non cancellarne i caratteri così come di prevederne un riuso non puramente abitativo e terziario, appare indispensabile garanzia del mantenimento di quel contesto.
Un contesto senza il quale l’ubicazione del Musil potrebbe apparire una circostanza casuale, o comunque non evidente, ai visitatori più giovani come a quelli forestieri. Sufficiente dunque un intervento di questo genere? No. La complessità della vicenda storica e sociale che ha connotato questa parte della città, tanto da farne un caso esemplarmente rappresentativo delle dinamiche dell’industrializzazione, chiede di essere ricostruita, documentata, raccontata, all’interno del museo stesso. Dal suo allestimento – tuttora allo studio, come si è recentemente appreso, e, ci si aspetta, certamente attento a questo versante – non meno che dalle iniziative di recupero ancora possibili (e indilazionabili!) nel suo intorno immediato dipende la possibilità di evitare che quello che sta per nascere si riveli, al di là delle sue più generali e indiscusse finalità, un museo «fuori luogo».
Dal Corriere della Sera del 13 novembre 2019.
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La fotografia in testa a questo articolo è l’ex laminatoio della Bisider in un’immagine inedita di Luigi Bellometti.