Cees Noteboom, 533. Il libro dei giorni, Iperborea 2019
“Non è nemmeno certo che questo sia un vero diario, forse è piuttosto un libro dei giorni, uno strumento per trattenere qualcosa del flusso dei pensieri, delle letture, di quel che si vede, di certo non è un libro di confessioni”.
Prendiamo sul serio il tentativo che l’autore fa, passata la metà del suo libro, per definirne la natura.
Primo, i pensieri: un ininterrotto colloquio con se stesso che non offusca affatto l’attenzione per gli avvenimenti che la cronaca registra. “Provate – constata infatti Nooteboom – a tenervi lontani dal mondo e il mondo vi riagguanterà”. Anche se vi chiedete “Quando si può dire che un fatto sia un evento”. Lo è un incidente ferroviario, ma anche, per uno che si sente “ospite del (proprio) giardino” nella prediletta Minorca, l’upupa che improvvisamente un giorno gli si posa accanto. Ma, appunto, il mondo ti riagguanta: “si presenta sullo schermo: attentati, guerra, omicidi (…) tutto si disegna sul vetro, come se si guardasse lontano, attraverso un tunnel, e i panorami qua fuori e i libri dentro casa non esistessero più”. E non basta aver scritto, aver preso posizione pubblicamente, perché “non sai se sia servito a qualcosa”, forse “è tempo che ti chiuda nel tuo giardino mentre tutti gli altri procedono frenetici e inarrestabili in un mondo che è tutto un malinteso”. Senonché, “anche se personalmente sei al sicuro, sei imbrattato della merda della guerra che accompagnerà i tuoi giorni fino alla fine, che tu lo voglia o no”. La guerra e le migrazioni, di fronte alle quali “diventiamo persone diverse senza più rendercene conto. (…) Il faut cultiver notre jardin” – ha scritto Voltaire –. “Io faccio del mio meglio, ma il mio giardino si trova nel mondo, che lo voglia o no”.
Eppure. Eppure – ecco le altre piste che percorrono queste pagine – i libri, che restituiscono “il mio autoritratto di lettore”, gli innumerevoli riferimenti letterari che sono parte dell’esperienza quanto gli incontri che si sono ricercati sull’onda di una curiosità inestinguibile per le altre culture, quella curiosità che aveva condotto Nooteboom in Giappone – come testimoniato in Cerchi infiniti. Viaggi in Giappone (Iperborea 2017) – e che qui si manifesta come consapevolezza del fatto che il confronto – come già aveva sottolineato Montaigne – è la via per misurarsi “con gli aspetti di se stesso che si imparano in un’altra cultura”. Confronto con gli altri, ma anche con l’Altro, il non umano: dai cactus che aspettano ogni stagione lo scrittore a Minorca all’asino e alle mucche in cui gli accade di imbattersi, quella che emerge è una radicale alterità della natura, in cui “le rose non possono disperarsi”, “semplicemente esistono, non hanno altro da fare, soprattutto non devono preoccuparsi di noi e dei nostri sentimenti”. Così come gli amati cactus che si è imparato a distinguere apprendendone i nomi “non sanno come si chiamano, ma sembra che non gliene importi nulla”.
Se è allo sguardo del calviniano Palomar che a volte sembra possibile accostare quello di Nooteboom, allo scrittore italiano si avvicinano anche la curiosità scientifica dell’umanista e soprattutto la consapevolezza delle propria limitatezza e della propria finitudine, circostanze in cui tuttavia risiede quella del proprio essere nel mondo, del proprio esserci al di là delle convenzioni sociali e dei condizionamenti storici, del proprio saper vedere l’estrema varietà che connota il mondo senza l’illusione di conquistarne una visione complessiva, obiettiva. Tutt’altro: occorre ammettere che tutto quel che si vede lo si vede, inevitabilmente, in riferimento a se stessi. Ed è perciò ineliminabile il mistero. Quello del tempo e della durata, innanzitutto, su cui – annota lo scrittore – ho imparato che c’è ben poco da dire”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.