Un contributo importante all’archeologia industriale
Tag, segni e tracce lasciate nelle Cattedrali del lavoro ormai abbandonate immortalate da Gigi Bellometti.
Ha respirato l’aria della fabbrica, Gigi Bellometti, sin da bambino, nelle officine meccaniche del nonno, e poi da operaio, in gioventù, e in seguito, per una vita – arrivata oggi vicino agli ottanta – attraverso l’impegno a vario titolo prestato nel sindacato.
Un’aria, quella dei capannoni e delle macchine, che si è tuttavia rarefatta a partire dalla fine degli anni ’70 e soprattutto con le grandi ristrutturazioni degli anni ’80, che dopo il tessile investirono il metalmeccanico.
Di qui la consapevolezza che, come la memoria della civiltà contadina in seguito allo spopolamento delle cascine, così anche quella dei luoghi della produzione industriale poteva disperdersi con l’abbandono e il degrado di quelle che si potevano considerare Cattedrali del lavoro. Questo il titolo del grande reportage fotografico con il quale Bellometti ha offerto un contributo importante alla ricerca archeologico-industriale diffusasi in Italia, e a Brescia, sul finire degli anni ’70. Gli stessi in cui – la coincidenza appare in questo caso significativa – apparivano nei ghetti newyorkesi i primi graffiti, manifestazione di quella cultura hip-hop non a caso richiamata in una delle immagini che in anni recenti Bellometti ha scattato fra le rovine delle fabbriche disertate dal lavoro, a Brescia come a Nave e in altri centri della provincia.
Rovine che dovrebbero più propriamente dirsi macerie, nella maggior parte dei casi essendo il frutto non dell’usura del tempo ma di deliberati interventi di demolizione.
È dunque in queste cattedrali sconsacrate e fatiscenti che l’obiettivo del fotografo si è appuntato sul contrasto coloristico con cui segni per i più indecifrabili si impongono sulle tinte smorzate del grigio del cemento e della ruggine degli scheletri delle strutture.
Appaiono lontanissimi i tempi in cui non graffiti dal sapore vagamente esoterico ma scritte chiare nel loro significato comparivano sui muri di queste stesse fabbriche e gettavano una luce sulla vita che, al di là delle ininterrotte cortine murarie che le circondavano, si svolgeva. Nei suoi momenti cruciali come nella sua ordinaria quotidianità.
Dicevano delle ragioni della lotta in corso nel 1979 e nei primi anni ’80, le parole a lungo rimaste a fianco del cancello della Sider, in quell’anno venduta a Lucchini; mentre in un capannone della stessa fabbrica, a coronare un grande scaffale, compariva – ancora leggibile al tempo in cui si effettuavano sopralluoghi finalizzati a individuare reperti per l’allestimento del futuro Musil – un monito perentorio («Gli attrezzi vanno rimesso al loro posto!”» ed esplicitamente indirizzato a non meglio definite «Teste agricole» – gli operai provenienti dalla Bassa, c’è da pensare, entrati in fabbrica ma non ancora del tutto assimilati alla sua disciplina.
Generalmente condannati quando compaiono sui muri che costeggiano le vie cittadine, i graffiti disegnati su muri fattisi anonimi e privi di valore come quelli che Bellometti si ostina a leggere, sembrano testimoniare una volontà di «lasciare il segno» che spesso si traduce in semplici tag, nomi in codice che solo altri graffitari sapranno interpretare. Una ricerca di riconoscimento entro una cerchia ristretta, dunque, ma pur sempre espressione di un’affermazione di Io che temono l’invisibilità, più di tutto.
Messaggi tanto più dissonanti, prove di esistenza tanto più spaesate quando per lasciare i loro segni vistosi scelgono gli stessi luoghi in cui intere generazioni, lontane dalla preoccupazione di marcare una traccia individuale, hanno in larga parte affidato alla dimensione collettiva la propria identità.
Un segno nella storia I graffiti disegnati su muri fattisi anonimi e privi di valore sembrano testimoniare una volontà di lasciare il segno che spesso si traduce in semplici tag e nomi in codice.
Pubblicato sul Corriere della Sera – Brescia del 30 novembre 2019
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