Fuani Marino, Svegliami a mezzanotte, Einaudi 2019 (pp. 168, euro 17)
“La paura di quanto poteva accadermi non superava quella di quanto mi era già accaduto.
Allora ho preso coraggio e mi sono buttata. (…) sono caduta, ma non sono morta.”
È la cronaca di un tentato suicidio ad aprire il libro. Il proprio suicidio. Ma raccontato come fosse quello di un altro. E da un altro riferito: “Come raccontano le oltre mille pagine della cartella clinica – due grossi faldoni che ancora oggi conservo nella libreria di casa – per i successivi mesi sarei rimasta inchiodata al letto.”
Dunque, una prima osservazione sul romanzo non può che riguardare la scrittura. Asciutta, precisa, distaccata: forse si deve scrivere così per raccontare la propria morte… “Del reparto di rianimazione ricordo la sete, il bip delle macchine e l’affanno dei respiratori. La sensazione che accanto a me qualcuno stesse per morire, sempre.”
Poi, il ritorno alla coscienza: “Ero consapevole di quanto avevo fatto? Sì. Ma non me ne rammaricavo. (…) Ho tentato di uccidermi il 26 luglio 2012, avevo da poco compiuto trentadue anni e da neppure quattro mesi partorito la mia prima e unica figlia, Greta.” Ma non si è trattato di un gesto inatteso. La tragedia era annunciata: “qualcosa di terribile mi era accaduto, qualcosa di cui non avevo colpa e che avevo dovuto affrontare (…) cominciai a pensare che raccontare la mia storia fosse nello stesso tempo un dovere e un’opportunità.” Ma perché aveva voluto morire? La domanda obbliga a un nuovo punto di vista: si poteva parlare dell’atto come fosse stato compiuto da un altro, si può parlare delle sue ragioni solo calandosi nella propria storia. “Non un’unica causa ma una concatenazione di cause mi hanno fatto desiderare la morte. La mia testa, forse predisposta dalla nascita, ha incontrato situazioni sfavorevoli fino al punto di rottura, molto più avanti nel tempo”. È la “storia remota” a dover essere sondata, perché “è difficile liberarsi dal bambino che siamo stati. La nostra infanzia ci insegue e ci condiziona.”
Si coglie, in questa presa di posizione che ha mosso l’autrice e orienta il lettore fin dalle prime pagine, un modo di rapportarsi al problema vicino all’esperienza di altri scrittori che in tempi recenti hanno messo a tema la loro condizione. Emanuele Trevi per esempio (Sogni e favole. Un apprendistato, Ponte alle Grazie 2018), il quale non ha problemi ad ammettere che “sono sempre stato una persona poco vitale, diciamo pure depressa”. Per cui la depressione non appare semplicemente una questione con cui fare i conti, da risolvere in qualche modo – come ad esempio ne L’uomo che trema di Andrea Pomella, Einaudi 2018 –, bensì un tratto distintivo del carattere, di un modo di stare al mondo che consegue – in Trevi – alla netta percezione che “non facciamo che trapassare”, “possiamo illuderci di essere qui per qualcos’altro (…) ma di fatto non c’è un singolo secondo in cui non trapassiamo” e “l’esistenza, dal punto di vista individuale, non possiede nessun valore – conta solo la specie”, anche se ci abita la “certezza illusoria di essere destinatari di un messaggio”: “possedere un destino è la suprema finzione”.
Se in Trevi l’origine del proprio stato trova una definizione filosofica, esistenziale, in Marino chiede di essere rintracciata nella vicenda personale, e dunque familiare, innanzitutto. A partire da quel nome, Fuani, nel quale i genitori vollero riunire i propri (Furio e Anita): “forse già chiamarmi così rappresentava un destino (…) Ma in questo mio racconto a posteriori, ogni dettaglio è destinato ad assumere le sembianze sinistre di un segno premonitore.” Quel che è certo è che – tipicamente – già nell’adolescenza la protagonista sperimenta “qualcosa di diverso dalla comune tristezza: assomigliava più alla perdita di senso.” E non a caso, all’università, si iscriverà a psicologia, senza per altro alcun interesse per la professione che avrebbe potuto conseguirne.
Non seguiamo la vicenda di Fuani, da lei raccontata con una precisione pacata che può a tratti ricordare certe pagine di Annie Ernaux, salvo interrogarsi – quando il racconto arriva a dire del primo “esaurimento nervoso” – circa la necessità di “un codice linguistico diverso” quando si vuol scrivere della malattia. Ma ha senso porsi il problema quando la malattia è mentale? “Il mio tentativo – dichiara l’autrice – è questo libro”, la storia di una progressiva perdita dell’orizzonte che circoscrive la normalità, delle sofferenze di una “depressione post partum” che psichiatri freddi e protocollari, da un lato, e dall’altro familiari ben intenzionati ma incapaci di vedere quel che pure hanno sotto gli occhi, non sanno arginare. Poi, la cronaca degli interventi chirurgici, strettamente, volutamente aderente al linguaggio settoriale della medicina: protagonista sono il corpo e le operazioni che su di esso si svolgono; la storia e la soggettività sembrano messe al bando da quanto è accaduto. Ma sembra andar bene così: quello di cui Fuani può finalmente godere è il “sollievo nel non avere responsabilità, nell’essere presa in carico da qualcuno (…) Paradossalmente stavo meglio”. Senonché la pressione della domanda, più o meno esplicita, che gli altri inevitabilmente fanno gravare sulla convalescente – perché l’hai fatto? – va crescendo, si fa quesito interiore, ineludibile: “Mi ero diretta verso quanto la società si aspetta da una donna di trent’anni – cerca di mettere a fuoco Fuani –: la carriera e contemporaneamente la creazione di una famiglia. E questo mi aveva distrutta.” Ma “ci si abitua a tutto (…) e ci si rialza”, deve constatare nei mesi della riabilitazione, anche grazie al provvidenziale incontro con una dottoressa che la convince dell’essenziale: “Tu non sei quello che hai fatto.” Che è come dire: non c’è solo l’“etichetta psichiatrica” – “disturbo bipolare di tipo due” –, ma ci sono anche il proprio “temperamento” e la propria “visione delle cose”, e la necessità di accettare una “convivenza difficile”: quella con se stessi. Una necessità inaggirabile: “credere che questo libro migliorerà le cose significherebbe raccontarsi delle favole.” Ma la determinazione a fare lucidamente i conti con se stessi non impedisce di vedere che quello di essere felici, nei paesi occidentali almeno, da diritto si è fatto dovere e che “questa visione rende particolarmente difficile accettare condizioni come la malattia in generale e la depressione ancora di più.” E un romanzo, la letteratura più della saggistica, possono servire a anche a questo: a contrastare questa difficoltà, sempre più stridente in una società in cui la depressione sembra, a livelli e secondo declinazioni diverse, rappresentare un tratto costitutivo. Ne è consapevole l’autrice, fin dal momento in cui ha avuto l’idea del romanzo: “compresi che questo libro non era solo il racconto di una cosa terribile che mi era successa, ma anche un gesto politico, almeno nelle intenzioni. C’entrava qualcosa che aveva a che fare col concetto di pride (…): IO SONO COSĺ.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.