Adalbert Stifter, Uno scapolo, Elliot 2019 (pp. 120, euro 13)
Campione di una “mitizzazione inconsapevole del mondo agreste”, esponente dello “strapaese del mondo absburgico”, “poeta di un idillio campestre che era essenzialmente una finzione” la quale “poteva trovare una sua patetica misura soltanto nell’evasione e in una idealizzata e severa vita dei campi e dei boschi, lontana dai fermenti cittadini”: il profilo di Adalbert Stifter che Claudio Magris tracciava quasi sessant’anni fa nella sua opera prima (Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna), cozzava consapevolmente con i giudizi espressi da Nietzsche e da scrittori come Thomas Mann, secondo il quale Stifter (1805-1868) è da considerarsi “uno dei narratori più strani, profondi, celatamente audaci e travolgenti della letteratura universale”. Non a caso, infatti, destinato a ispirare autori della levatura di Sebald e di Auden.
Anche limitandoci a questo racconto – minore rispetto a quelli più spesso ristampati di Stifter – si deve ammettere il peso di un certo tradizionalismo, che sembra circoscrivere l’orizzonte entro il quale si muovono i personaggi, i quali si realizzano o sembra possano realizzarsi solo nel matrimonio e nella famiglia e più in generale in un senso della misura che sconfina in una sorta di eroismo della moderazione. Senonché, in quello stesso orizzonte fa le sue prove un senso del limite, una accettazione della propria finitudine che si traducono in una prosa limpida, in un periodare pacato, in pagine che recano un’impronta inconfondibile.
La lucidità, e insieme la delicatezza, con la quale la gioventù del protagonista – semplice e generoso, alle soglie del passaggio al mondo adulto – si confronta con la vecchiaia dello zio misantropo – e, almeno apparentemente, avaro anche del poco tempo che sente rimanergli –, ma ancor più la relazione fra gli stati d’animo e i paesaggi diffusamente descritti, ma raccontati sarebbe meglio dire (non dimentichiamo che Stifter era anche pittore) testimoniano di uno sguardo per il quale vicenda e personaggi sono tramite di riflessioni il più delle volte solo implicite ma pazientemente suggerite al lettore: l’individuo, e la sua storia, non possono che misurarsi con un Tempo e una Natura sostanzialmente indifferenti, in cui tuttavia misteriosamente si riflettono, hanno uno spazio, indefinibile ma certo, le gioie e i dolori, le speranze e le disillusioni dei singoli. La misura, l’attesa, la pazienza, la pacatezza non sono allora virtù astratte, regole d’una morale pavida e rinunciataria, ma atteggiamenti all’altezza del destino che agli uomini è dato di vivere.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.