Rachel Cusk, Onori, Einaudi 2020 (pp. 182, euro 16,50)
Anche questo romanzo, come i due che l’hanno preceduto (Resoconto e Transiti, in queste note il 12 dicembre 2018 e il 23 giugno 2019) è accompagnato dall’avvertenza dell’editore: quella di Cusk sarebbe una “trilogia che ha cambiatole regole del romanzo contemporaneo”. Perché? Perché anche in Onori all’autrice interessa il modo in cui la gente parla delle proprie vite, al punto da renderle possibile – assicurava nel primo romanzo – “Vedere nella vita degli altri una cronaca della mia”. Dell’esagerazione, se non dell’infondatezza, di pretendere che un tale atteggiamento scalzi la logica romanzesca si è detto nelle note già dedicate a questa scrittrice. Meglio chiedersi qui se il terzo romanzo si pone in una relazione di piena continuità con gli altri, e la risposta non sembra poter essere del tutto positiva.
Certo la protagonista somiglia ancora all’autrice – scrittrice internazionalmente affermata, chiamata all’estero appunto in questa veste – e la sua concezione del mondo non ha cessato di oscillare fra un pacato disincanto e un pessimismo profondo: le persone vivono in preda a un “ansia” che è “frutto della convinzione che la vita sia governata dal mistero, quando in realtà il mistero non (è) che la misura del nostro rifiuto di accettare la mortalità”, e intanto si cerca di evitare di “passare attraverso lo specchio” cadendo “in quello stato di dolorosa consapevolezza di sé dove le umane finzioni (perdono) credibilità”. Finzioni – come, anche, gli onori, ossia gli apprezzamenti, i riconoscimenti, che il titolo richiama – o zone d’ombra comunque, che governano la relazione coniugale come quella genitoriale, così come il fare degli adulti (anche qui paragonati a grandi, inconsapevoli bambini) e il vivere comune. Perché “la condizione umana è così complessa che ogni volta elude i nostri tentativi di dominarla”. Il che si traduce in destini storici senza scampo: l’Europa, più di altre parti del pianeta, sta morendo, e poiché singole parti vengono sostituite mentre muoiono diventa sempre più difficile capire cosa è finto e cosa è vero, e forse lo capiremo solo quando sarà tutto sparito” (negozi identici in tutti i luoghi del mondo e caffè ridotti “inevitabilmente (a) versioni turistiche di se stessi”, in nome di un “processo di rigenerazione che (comincia) a somigliare a una maschera di morte”).
Modi di vedere, come questo sull’omologazione planetaria, raccolti dai discorsi di altri, incontrati più o meno casualmente, al convegno di scrittori cui Faye – ne leggiamo il nome una sola volta – partecipa. Il suo punto di vista emerge molto sporadicamente, in modo molto più episodico – si ha l’impressione – che negli altri due romanzi, ma soprattutto: la sua capacità di ascoltare sembra qui finire in quella di farsi semplicemente eco della realtà con cui viene a contatto, la sua discrezione risolversi in una sostanziale afasia. E non solo: più che originali, anche se circoscritte, strutture narrative, i racconti degli altri sembrano a volte sconfinare nella chiacchiera e andare ad alimentare una semplice galleria di tipi umani, mentre la coesione della narrazione appare a volte affidata al ricorrere dei temi, alle penetranti descrizioni dell’aspetto delle persone che avvicinano la protagonista, assai meno dagli intermezzi descrittivi dei luoghi in cui si muovono persone che sembrano le figure evanescenti e standardizzate dei rendering.
Neanche in Onori, del resto, lo scrivere, la letteratura, sono sinonimi di autenticità. Anzi, si può dire che tra le pagine più efficaci ci siano proprio quelle che ne denunciano l’irreversibile compromissione in una logica di intrattenimento, sia pure colto, che l’industria editoriale, il mercato impongono: “nei bassifondi di Internet”, “i lettori – spiega l’editore – (esprimono) le loro opinioni sui propri acquisti letterari più o meno come avrebbero potuto valutare i risultati di un detersivo”. È del resto “una posizione di debolezza vedere nella letteratura qualcosa di fragile che (va) difeso” come fanno molti scrittori contemporanei”. “Piuttosto ciniche” giudica simili affermazioni la nostra scrittrice, anche se non sembra estranea alla sentenza di uno dei suoi personaggi, sec convinto che proprio “ciò che non (si) sa descrivere sia la vera realtà”. La vera realtà: estranea a ciò di cui non si sa, non si può, non vale la pena di scrivere. Forse era questo l’approdo naturale, inevitabile, lucidamente perseguito, della trilogia di Rachel Cusk. E la scena con la quale il libro si chiude, tanto banale quanto desolante, ne appare il sigillo.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.