Carola Barbero, Addio. Piccola grammatica dei congedi amorosi, Marietti 1820, 2020 (pp. 223)
Certo il Barthes dei Frammenti di un discorso amoroso, ma anche la vasta letteratura psicologica sull’attaccamento e il distacco echeggiano in questo libro, una sorta di catalogo degli addii fra amanti (ma non dimentichiamo che anche un museo, in proposito, esiste: il “Museo delle relazioni interrotte” di Zagabria). Non solo un catalogo però: anche una grammatica, che come ogni grammatica formula delle regole, mai in astratto tuttavia ma sempre ricavate da racconti – a volte solo accennati, altre delineati nella loro trama – di esperienze concrete, e supportate da citazioni che trascorrono con sorridente disinvoltura da Friedrich Nietzsche a Lucio Battisti, da Caterina Caselli ad Antonio Gramsci. Ma veniamo alle regole, che, volendone fare un’estrema sintesi, potremmo riunire in un monito ricorrente in queste pagine e riassunto in una delle ultime: “lungi dall’essere un suicidio, il riuscire a dire, finalmente,‘addio’, è in realtà un inno alla vita. Essere riusciti a liberarsi degli alibi, della diplomazia, delle zavorre, delle aspettative degli altri e dei doveri fasulli, con un unico e maestoso proposito, quello di provare a vivere, e di farlo per noi, questa volta”. Ecco allora che, ripercorrendo “contromano” la strada tracciata da Barthes, l’autrice, filosofa del linguaggio e della letteratura, constata innanzitutto che “oggi il congedo amoroso (…) pur essendo spesso praticato – sono liquidi anche i legami, ormai, come faceva magistralmente notare il grande Bauman – , è raramente elaborato, compreso e condiviso con in realtà meriterebbe”, e incapace di ammettere che Emily Dickinson aveva ragione ne dire che “Dirsi addio è uno dei prezzi della Vita Mortale”. Da quei tempo i mezzi per dirselo sono cambiati, “ma dire ‘addio’ continua a essere difficile”. Ma difficile è anche attribuire il significato che la parola ha, e le conseguenze che comporta: “Ecco perché l’addio deve essere preparato, meditato, deciso, solitario e (soprattutto) definitivo”. L’angoscia dell’abbandono e la paura dell’assenza – che riporta alla luce esperienze antiche, spesso rimosse, di abbandono e di assenza: aspetto questo forse non sufficientemente considerato – devono essere messi in conto ma non tramutarsi in fantasmi che atterriscono: “quell’aspettare vuoto (che spesso segue i congedi (…) non è l’attesa di qualcuno che deve arrivare, ma il semplice tentativo di recuperare quell’io che eravamo (prima che la relazione, ormai finita, mettesse tutto in discussione) e che c’è ancora, da qualche parte”. È di questa convinzione che occorre farsi forti: “quell’io è l’unica cosa di cui valga la pena aspettare il ritorno”. Volersi bene insomma, dopo aver voluto bene… Disposta come un dizionarietto in cui i casi e i temi in essi dominanti si succedono in ordine alfabetico, questa “grammatica” non va confusa con i manuali di “autoaiuto” o le guide all’“autostima” che imperversano on line non meno che sugli scaffali delle librerie: è dell’immaginario e dei comportamenti, dei modi pensare e di sentire dei nostri tempi che questo libro parla.