▸ dai giorni del coronavirus
Di solito la mattina dedico almeno due ore per mettermi in contatto con persone care e amiche con le quali lavoro da anni, perché la distanza non annulla l’intima prossimità che nel tempo si è andata approfondendo. Da questa profondità vengono le parole e le pratiche che propongo per rendere ogni giorno vivo e ricco di esperienza non solo per me.
Mai avrei immaginato che le pratiche zen apprese e coltivate nella seconda metà della vita (zazen, meditazione camminata, disegno con l’inchiostro, pittura libera dall’ansia performativa, scrittura strettamente contestuale e, come si dice, da cuore a cuore…) sarebbero state così decisive in questo tempo, un tempo che oso chiamare: di verità.
Perché questo tempo che stiamo vivendo è il tempo in cui cadono tre tabù: il tabù della morte, il tabù della malattia e il tabù della vecchiaia. Questa epidemia li ha fatti saltare brutalmente tutti in una volta. Così, adesso, morte, malattia e vecchiaia si mostrano in tutta la loro evidenza come nervature del Reale.
Stanno sconvolgendo un ordine in cui queste nervature dovevano restare nascoste, ben protette per non disturbare i sani, i giovani, i vivi. Per confermarli/confermarci nell’illusione che la vita sia altro dalla morte, dalla malattia e dalla vecchiaia. Ora questi nervi si sono scoperti e provocano dolori lancinanti, paralizzanti, non avendo rimedi per placarli.
Verso mattina, dopo una notte piena di risvegli, mi trovo a fare questi pensieri e il tempo del coronavirus si associa al tempo in cui ho scoperto che nel mio corpo si erano sviluppate cellule cancerogene che, lasciate alla loro vitalità, mi avrebbero portato alla morte. Allora ero nella fascia delle persone giovani; gli ospedali funzionavano e imparavo a fidarmi della medicina, grazie a medici competenti e mediche di grande sapienza e libertà. Oggi appartengo alla fascia d’età delle persone vecchie, più esposte al rischio che il contagio abbia esiti nefasti. Oggi non possiamo ammalare perché gli ospedali non possono curare. Un’amica con gravi patologie (tra cui una macula che invade i suoi occhi) nota che non esistono più le altre malattie, occultate dalla totale attenzione al virus.
Come non vi sarà sfuggito, nella città in cui vivo, non si riesce a contenere la diffusione del virus e da subito (anche se non si poteva dirlo) i medici si sono trovati a decidere chi aiutare e chi no… Si sono viste all’opera troppe incompetenze e ingiustizie nella gestione regionale della cura, che hanno scatenato in me indignazione (la collera giusta) e contemporaneamente una grande impotenza.
Perciò – e questo è il punto – faccio ogni giorno un lavoro su di me per non ascoltare le mie parole, quelle che mi bruciano dentro perché fuori non le sento pronunciare. Avrei bisogno di parole indignate, ma non le sento o non le sento abbastanza, non tante quante ce ne vorrebbero per fare un falò di tutte quelle inutili rivestite di competenza. Sono stufa di competenti che non hanno il coraggio di dire e fare quello che adesso (insisto: adesso) dire e fare è di loro competenza… Solo da due giorni ho sentito qualche voce levarsi, dopo cinque settimane.
Così disegno oche selvatiche che volano nel cielo, panchine dove restare in attesa di poter entrare ancora nel gioco del mondo per quel gioco che so fare, ma ora – mi dicono – devo stare lì, ferma, nascosta, buona e zitta ad aspettare il mio turno, chissà quando.
E io sto lì, a mio modo nascosta, silenziosa ma non ammutolita, come da tempo ormai avevo scelto di vivere, una specie di eremita di città. In questa primavera, che ricorderemo come la primavera del coronavirus, quella scelta di vita mi viene imposta nella forma di reclusione. Da eremita a reclusa: cambia radicalmente la condizione. Da vocazione a necessità imposta. E allora cerco modi per rovesciare le cose, per ritrovare nella necessità imposta la mia vocazione all’eremitaggio maturata negli ultimi anni quando avevo deciso di fare della mia casa e di altre case, dove venivo invitata, luoghi di lavoro d’anima, di apprendimento di pratiche spirituali… Dedico molto delle mie giornate a tenere vivi i contatti via scambi whatsapp, tramite lettere che viaggiano con la posta elettronica, e telefonate… Sì, la vecchia abitudine di stare al telefono a lungo, quando intuiamo che abbiamo bisogno di sentire qualche amica, qualche persona cara direttamente… Penso spesso a Zambrano, alla fecondità dell’esilio per lei. Sento una profonda sintonia con questo suo modo di vivere l’esilio, non come separazione dagli altri, ma come possibilità di sfuggire alla “seduzione di una patria qualsiasi essa sia”, di accedere a un sapere, “il sapere più materiale, più concreto, più implicato ed intriso del sensibile ma anche il più esposto all’abissalità della cosa, più di essa partecipe.” Torno a leggere, in questi giorni, le prime pagine, Nascere all’esilio, della bella introduzione di Pina De Luca al libro di Maria Zambrano, Filosofia e poesia, per legarmi a questo tempo, per ritrovare, in questo tempo di forzata reclusione, la mia vocazione all’eremitaggio da un mondo incapace di riconoscere la verità dell’ammalare, del morire, dell’invecchiare… e organizza tutto sulla base di questa cecità. Un mondo che, temo, non saprà far tesoro di questo tempo del coronavirus, già catalogato come un tempo di emergenza.
(da una lettera alle amiche della comunità filosofica di Diotima, 29 marzo 2020)