▸ dai giorni del coronavirus
Quando viaggio tengo un diario.
Sono stata fortunata. Negli anni ho accumulato tanti quaderni pieni di cronache, annotazioni, di piccoli dettagli, descrizioni di paesaggi e stati d’animo.
Frammenti. Scontrini, biglietti di navi e di musei, parole.
Il mio modo per non perdere l’essenza di esperienze vissute che nella cronologia dei fatti sarebbero inevitabilmente destinate all’oblio.
Il mio racconto è quello che resta.
Ogni tanto, verso sera, mi raggiunge un aroma, la sensazione remota di un frammento d’immagine, un sapore, vaghe percezioni che provengono da lì, dai miei quaderni di viaggio.
Mi succede adesso, nei giorni in cui il tempo e le distanze hanno modificato la loro unità di misura. Nessun luogo è raggiungibile, in queste giornate dilatate che pure producono accelerazioni improvvise. Ora mi accade, quando parole che prima mi sfioravano da lontano, stabiliscono il ritmo e le scelte della mia vita.
Lo iato fra la mia realtà attuale e quelle schegge di memoria in libero movimento deve essere colmato. Al contrario, la mia mente registrerà quello scarto e ne farà una crepa in cui potrebbe essere facilissimo inciampare.
Da qualche giorno mi sono quindi messa in viaggio, e ancora una volta ho iniziato a scrivere un diario.
Le prime parole non sono state mie. A nominare quello che stava accadendo ci hanno pensato altri. Poetesse, amiche e amici. Scrittori e scrittrici.
“Non prendere la parola… Diventa tu la preda. Sia lei che ti cattura.”
Per un lungo periodo sono stata rintanata e non mi sono fatta catturare.
A un certo punto mi è sembrato persino che ci fossero troppe parole spalancate nell’aria; getti, conati che mettevano a rischio l’integrità del pensiero.
Quindi, ho pensato, la mia unica possibilità è cercare nel silenzio parole piccole che mi aiutino a scrivere dentro questi giorni, perché scrivere di questo non mi è possibile.
A stanarmi per primi sono stati gli aggettivi. Ne avevo bisogno per cominciare a capire cosa stesse succedendo.
Improvvisamente, ad esempio, mi sono trovata priva della mancanza di tempo. Immediatamente mi accorgo che non frutta, questo tempo grasso. Come mai non mi è utile per rimettere a posto i miei cassetti stracolmi di bozze, testi da rivedere o da completare, arretrati di studi da approfondire e ricerche da terminare?
Patisce la carenza di alcune qualità, questo tempo a mia disposizione.
Per prima cosa, non è libero. Per quanto depauperato dagli obblighi derivanti dalla mia attività lavorativa e deprivato da ogni altro tipo di impegno, sul tempo a mia disposizione grava una coazione esterna che limita, materialmente e moralmente, la mia volontà e i miei movimenti.
Non l’ho deciso né programmato, non l’ho organizzato. Mi ritrovo per le mani un regalo inaspettato cui tocca trovare un senso. E senza il mio consenso mi impegna.
Non lo conosco, continuamente mi domanda di imparare cose nuove, di adattare le mie abitudini a circostanze che mi erano sconosciute, e mi chiede di fare i conti a viso aperto con la paura e il dolore. Come una malattia. Non solo mia, no.
Della comunità intera.
Tutto questo mi richiede concentrazione ed energia.
L’aggettivo vicino invece, non lo posseggo più. Smarrito.
In senso temporale, non posso immaginare un tempo che sta per venire.
Nessun luogo si trova a poca distanza.
E poi ci sono le persone. È proibito stare vicini.
Possiamo essere insieme, con forza, azzardando investimenti dall’esito incerto affinché il senso di vicinanza metta radici.
Penso a tutti e non mi trattengo. Mi sveglia di notte un volto, una voce, mi compare nella mente a chiare lettere un nome. Alcune sono facce del mio cuore, magari non viste da tanto. Altri sono conoscenti, presenze di vite passate, persone con cui ho lavorato. Non ha importanza. Rispondo alla chiamata e mi alzo presto per accertarmi che siano in salute. Il resto viene da sé.
Con gli altri, le persone del presente, quelle che ero abituata a vedere, baciare, toccare, gioco a palla prigioniera. Quando il mio lancio le raggiunge, le rinchiudo in un luogo privato e sperimento metodi diversi d’intimità.
Trascorro ore al telefono con mia madre, leggiamo insieme il giornale.
Vedo gli amici nelle loro case, davanti alle loro tavole imbandite, mentre mangiamo tutti insieme da me, attraverso lo schermo del computer. Scrivo, con le sorelle del cerchio della scrittura, ciascuna per suo conto e tutte insieme.
Tutti attendiamo con pazienza il compagno che fermerà la palla al volo, liberandoci così dalla nostra prigionìa.
Riconosco dentro di me una gratitudine inattesa, e subito la vergogna della colpa. Sono fortunata, sto bene dentro la mia casa, sono in salute, dalle mie finestre posso vedere la campagna. Guardo la terra lavorata per accogliere le nuove semine. È bella, a tratti scarmigliata in zolle grandi e quasi grigie. Altrove liscia e ben pettinata, di un marrone intenso. Penso, insieme alla mia cagnolina, che la terra è una cosa buona. Appena può lei ci si rotola dentro. S’affida con gioia alla mia continua presenza, mi ricompensa accompagnandomi quieta per le ore lunghe di questi giorni. Crederà che questi siano gli albori del mondo perfetto…
Sono fortunata. So tenere a bada le domande sul domani e mi osservo, attenta a non cadere nella trappola delle frasi che iniziano con secondo me…
Questo non mi salva dalla conta dei caduti e dei giorni, ma oscura la tempesta dei cattivi presagi.
Sforzandomi di rimanere concentrata su questo che ora c’è, solo invoco preghiere laiche per tutti e per me.
Manerbio, 1 aprile 2020