Tracy Chevalier, La ricamatrice di Winchester, Neri Pozza 2020 (pp. 287, euro 18)
“Le ricamatrici di Winchester sono state così gentili da mostrarmi i loro modo di lavorare, spiegandomi i punti che adoperano”, “I campanari della Cattedrale di Winchester mi hanno consentito di assistere alle loro sonate”: potrebbe essere la protagonista a esprimere questi ringraziamenti e invece è l’autrice, nella nota che conclude il romanzo. Per scriverlo, Chevalier ha dovuto impratichirsi in campi a lei prima estranei, gli stessi nei quali si avventura Violet, la protagonista di una storia leggendo la quale si ha spesso l’impressione di aggirarsi nel mondo di Jane Austen. Impressione che la stessa Violet prova, a un certo punto, e che ha comunque presentito fin dal momento in cui, visitando la Cattedrale di Winchester si è imbattuta nella tomba della Austen e non ha potuto non notare che “la nuda lapide sul pavimento non citava neppure la sua attività di scrittrice”. Una comune sorte sembra avvicinare donne tra loro distanti come la grande romanziera e la dattilografa ormai trentottenne, come tale destinata a ingrossare le file delle “donne in eccedenza”, rimaste senza possibilità di accasarsi in un’Inghilterra da poco più di un decennio uscita dalla Grande guerra dalla quale molti uomini – fra cui il fratello e il promesso sposo della protagonista – non hanno fatto ritorno. È tutta qui la storia di Violet: nella sua volontà di lasciare un segno della propria esistenza, una determinazione pacata che non ha nulla di eroico se non nell’accettare la vita toccata in sorte e nel vivere orgogliosamente la propria solitudine. Con consapevolezza e realismo, ma senza ombra di rancore, senza l’impressione di aver subito ingiustamente torti irrimediabili, restando aperti al mondo quindi, e agli altri. Sapendo perciò cogliere un’identica disposizione nel campanaro che coltiva un proposito analogo: imparare a far bene qualche cosa che abbia senso e non soccomba alla futilità dei gesti e alla labilità delle intenzioni. Come Violet nutre “il desiderio di ricamare il meglio possibile, pur sapendo che forse nessuno se ne accorgerà”, così Arthur è appagato dalla coscienza di suonare meglio che può, “anche se pochi sono in grado di distinguere una buona suonata da una mediocre”. Perché se il suono delle campane non dura nel tempo, dura nella memoria.
E così, questi due personaggi, sommessi e per nulla eccezionali, restano nella memoria a lettura finita, emblemi di un saper vivere disincantato ma affatto privo di passione.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.