▸ dai giorni del coronavirus
Una donna sta camminando con dei bagagli in mano in un piazzale vasto, molto vasto. Sicuro e calmo il suo incedere. È sola in questo spazio così vasto. Sul lato sinistro c’è uno sbarramento, come un argine, una diga. Di là, oltre la diga, si sente il mare che si solleva e si abbassa, il rumore di onde grandi. Ma lei sa/io so che il mare non arriva a superare lo sbarramento. Una voce nomina La Spezia. Mentre sono in questo piazzale ad un certo punto mi accorgo che la terra si muove, dico: è un terremoto. E mentre dico questo ci sono delle persone. Continuo a camminare tranquilla, perché in quel piazzale vasto non c’è pericolo… il terremoto non suscita angoscia.
È la notte fra il 16 e il 17 febbraio quando questo sogno arriva. Sono a Chambéry, la città di transito dove la mattina dopo prenderò, questa volta per la prima volta, un autobus, il flixbus che viene da Parigi e arriverà a Milano. È pieno come un uovo e in ritardo di 90 minuti per una tempesta che ha bloccato tutti i voli da Parigi verso l’Italia. Al risveglio, penso che il sogno porti alla luce quel filo d’ansia che ha accompagnato questo viaggio in cui per la prima volta decido di rinunciare al treno nei miei viaggi da pendolare tra Brescia e Mirmande, un paesino della Drôme francese. Una scelta forzata, non tanto per la convenienza, ma per gli scioperi ferroviari in Francia che da mesi rendono quasi impossibile affidarsi ai treni per spostarsi.
Quel sogno resta lì, con quel tanto di enigmatico che certi sogni ci trasmettono. So che a volte occorre sospendere ogni lettura e aspettare che ci dicano qualcosa di più, e d’altro. Che parlino più chiaramente, con il passare del tempo. Perché ci sono sogni che non vengono solo per aiutarci a vedere uno stato d’animo che la coscienza individuale non sa o non vuole riconoscere. Nel mio caso: una inquietudine vaga, non tale tuttavia da impedirmi di partire. Ci sono sogni di un altro genere, sogni che, potrei dire, vengono dal cielo. Quelli in cui la nostra anima più vasta e profonda ha il presentimento di qualcosa che sta arrivando, prima che si manifesti con evidenza. Quelli in cui intercetta qualcosa che non riguarda solo il nostro personale sentire oscuro, le nostre inquietudini inconsce, ma qualcosa che si agita nell’ inconscio collettivo, che scaturisce dall’angoscia che pervade l’anima del mondo comune, il mondo creato dall’agire umano. Paure ancestrali: dell’acqua che esce dai suoi limiti e si riprende le terre emerse inondandole, paura della terra che si muove come un animale infuriato sotto i nostri piedi facendo crollare le costruzioni di cui andiamo orgogliosi, le case delle quali abbiamo bisogno per trovare riparo e protezione.
La donna che incede tranquilla, certa che quello sbarramento protegge da una inondazione che altrimenti sommergerebbe totalmente lo spazio vasto nel quale sta camminando, resta un’immagine che rivelerà tutto il suo significato e la sua forza nei giorni che seguiranno il mio rientro in Italia, quando, dopo una settimana, scopriremo che il virus di Wuhan è già arrivato qui e occorre arginarlo. Qui: nella città dove vivo (Brescia), nella mia città d’origine, dove abitano i miei (Cremona), ma anche a Mantova, la città dove il sabato 21 febbraio mi sono ritrovata per il laboratorio mensile con le amiche di lì e di Reggio Emilia…
È l’immagine di quella donna ad abitarmi, quel suo camminare calmo e sicuro, quando le giornate del ritiro zen in Francia e il pomeriggio del laboratorio, nella casa dell’amica che abitualmente ci ospita, resteranno nella memoria come ultime esperienze di contatti in carne ed ossa, di abbracci vissuti con tranquilla spensieratezza prima di imparare a bloccare la mano tesa per stringere quella dell’altro, dell’altra.
La prima volta che questo avviene è lunedì 23 febbraio. La giovane donna, con la quale ho un appuntamento per ricevere le poesie che desidera farmi leggere, ritrae la sua mano e si porta il foulard alla bocca dicendomi che è da poco uscita da una brutta influenza con febbri altissime. Non sono ancora arrivati i provvedimenti che bloccano i contatti ravvicinati, ma già c’è, in chi era qui nel mese di febbraio, la paura del contagio. Di contagiare e di essere stati contagiati. Sono questi i primi segnali di qualcosa che, nell’arco di pochi giorni, cambierà radicalmente le nostre vite. Dalla tenuta di questi ricordi capisco adesso che sono il crinale che separa il prima dal dopo, anche se non registro subito che stiamo vivendo non una guerra, ma una cesura davvero epocale.
All’inizio mi sembra eccessivo allarmarsi. Mi dico: è un’influenza, non è né Černobyl, né Fukushima, tantomeno Hiroshima… L’ironia mi aiuta nell’adattarmi al tempo che stiamo vivendo: passo sotto i portici di Brescia davanti al teatro Grande e mi viene da ridere guardando il tabellone del Festival pianistico di quest’anno dal titolo “Armonie sospese”. Faccio fatica ad essere prudente prima che arrivino i provvedimenti che ci chiedono di restare a casa e tuttavia non aspetto le restrizioni imposte per chiudere la mia casa agli incontri settimanali e mensili. Sono i miei amici e amiche francesi i primi a obbligarmi a riflettere su quello che accade. Mi chiedono notizie sull’onda di una informazione che scatena inquietudine, in alcuni angoscia, per quello che sta succedendo in Italia, nelle nostre città del nord. Temono che quello che sta capitando qui, a noi, possa capitare anche a loro. So per esperienza che è più angosciante immaginare una malattia che può portare alla morte o a una mutilazione, o a una limitazione grave dei movimenti, che non il viverla. Mentre la viviamo possiamo scoprire risorse del tutto sconosciute, una sapienza del corpo capace di guidarci nel muovere i primi passi dentro un tempo nuovo, insegnandoci ad accoglierlo e ad attraversare passaggi insidiosi che possono farci scivolare in abissi dai quali tirarci fuori diventa impossibile.
La collera è l’insidia dalla quale devo guardarmi. La collera brucia energie, chiude il cuore in una morsa. C’è una collera giusta, l’indignazione, che devo mantenere nell’alveo della saggezza. La collera non per l’imposizione di restare a casa, ma per le incompetenze e il caos nella gestione regionale della cura che si rendono così evidenti da generare sgomento e rabbia. È sempre lei, la donna del sogno che mi si presenta con il suo incedere calmo e sicuro ad arginare la collera.
La vedo quando scendo a portare lo sporco nei cassonetti e mi concedo il dono di una passeggiata di 500 metri nello slargo deserto del parcheggio dove, come noi, la nostra auto, una Panda color caffelatte sta ferma in attesa del dopo.
Sarà lei, la donna del sogno, a guidarmi in questo dopo, aiutandomi a non cadere prigioniera della paura del contatto, dell’angoscia del contagio?
Brescia 7 aprile 2020
Molto bello questo racconto.
Anch, io mi affido alla mia madre interiore quando mi avverte di ciò di cui devo temere o di cui posso stare tranquilla.