Romina Casagrande, I bambini di Svevia, Garzanti 2020 (pp. 400, euro 18,60)
“Migliaia di bambini (quattro mila all’anno nei periodi più duri, ma troppi di contrabbando per sapere con esattezza quanti) dai cinque ai quindici anni, per tre secoli – dal Settecento a metà del Novecento –, hanno attraversato le montagne. Soli, con uno zaino sulle spalle, dall’Italia, dal Ticino, dal Sud dell’Austria, lasciando paesi poverissimi e famiglie che li avevano venduti, per lavorare nelle ricche fattorie dell’Alta Svevia”.
Questo il fatto che la Storia, una Storia poco nota, ci consegna. Come farne un romanzo? Ripercorrendo la Storia in una storia, ovviamente: quella di delineare una vicenda coi suoi tempi e i suoi personaggi sullo sfondo di un’epoca e degli avvenimenti in essa accaduti è la ragion d’essere stessa del romanzo, la sua missione. Coniugare l’universale e il singolare in modo che ne escano reciprocamente illuminati. E dunque, fra quelle migliaia di bambini zumare su Edna e Jacob, delinearne i caratteri, raccontarne la relazione che li terrà in qualche modo uniti anche dopo che un drammatico tentativo di fuga dalla fattoria in cui si erano incontrati li separerà.
Ma c’è di più, in questo romanzo. La narrazione marcia sui due piani del passato e del presente, la cronaca e i flash back si alternano fino alla fine delle sue quasi quattrocento pagine, senonché questo modo di procedere, di costruire l’intreccio, non deriva semplicemente da un espediente narrativo collaudato: il fatto è che se Edna, ormai vecchia, ripercorre il cammino fatto da bambina per andare a trovare Jacob, una volta che ne ha inaspettatamente rintracciato notizie, è perché “il passato, anche quello più lontano, si può aggiustare purché lo si voglia”, purché si conservi – come Edna – la capacità di credere che “le persone non (scompaiono) mai completamente. A meno che non (sia) tu a volerlo”. E allora si tratta di scegliere, per esempio se accettare le cure affettuose di una vicina e sistemarsi in una casa di riposo o invece eluderle e fuggire, di nuovo, per tornare là dove tutto era cominciato. I due piani temporali su cui corre il racconto si articolano così ulteriormente: mentre quello della vita dei due bambini e dei loro compagni nella fattoria sveva evoca l’atmosfera dei lager che romanzi e film sulla Shoa hanno reso efficacemente, spesso crudamente, il racconto del viaggio di Edna e delle figure con cui viene in contatto si risolve in una successione di episodi e colpi di scena che richiamano la narrativa nord europea, da Paasilinna allo Jonasson del Centenario che saltò dalla finestra e scomparve. Il destino drammatico dei bambini di Svevia non cessa tuttavia di rappresentare il motore della narrazione, anche quando le avventure della vecchia Edna e del suo inseparabile, e altrettanto attempato, pappagallo Emil catturano l’attenzione del lettore. Un destino che, non si fosse complicato nelle loro vicissitudini presenti, nell’incontro con la generosità svagata di giovani marginali e nelle riflessioni che ne conseguono, sarebbe rimasto solo un documento del passato, un’ulteriore testimonianza delle innumerevoli ingiustizie della Storia e della violenza cieca degli uomini, senza saper raggiungere la forza di un’evocazione vivida e allo stesso tempo capace di aprirsi – attraverso l’indimenticabile protagonista – al sorriso e alla speranza, con il coraggio che solo “tener fede a ciò che si è” può dare.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.