Sandro Campani, I passi nel bosco, Einaudi 2020 (pp. 248, euro 19,50)
Siamo ancora là, nell’Appennino tosco-emiliano, come nel romanzo che avevamo letto quasi tre anni fa (Il giro del miele, Einaudi 2017, in queste note il 16 luglio di quell’anno): anche in questi Passi nel bosco troviamo una storia di famiglie, di amori e disamori, speranze e fallimenti, di destini che si credeva di aver scongiurato e invece negli anni l’hanno avuta vinta; vite che avrebbero potuto essere diverse, e non si sa cessare di interrogare per sapere perché sono andate come sono andate. E intorno il bosco, che circonda il mondo degli uomini e custodisce i loro segreti, sempre altro da loro anche se a loro soggetto. Anche se i tempi sono i nostri infatti, e si vive soprattutto di turismo e c’è chi sta recuperando uno dei tanti borghi disabitati da allestire ad “albergo diffuso” per accogliere i cittadini votati a velleitari ritorni alla natura, – di fare il periodico taglio del bosco si tratta, ed è questa operazione che ha riunito i diversi personaggi, modulati entro una gamma che si dispone fra un estremo e l’altro, e va dal vincente – si fa per dire – Luchino al perdente Daniele.
L’autore è uno di quelli che in Appennino è nato e continua a vivere, sia pure essendo passato dall’originaria montagna modenese a quella reggiana. Il bosco lo conosce bene: “I faggi sono quel che ti protegge dagli spiriti maligni: lo capisci già dalla corteccia, liscia, di quel grigio pieno d’occhi”. Così come da una lunga consuetudine nasce il personaggio attorno al quale in diverso modo gravitano tutti gli altri: Luchino, che prima di comparire in questo romanzo è stato protagonista di una canzone, E dove andrai, Luchino, perché Campani è anche cantante e chitarrista e scrive musica e testo di molte delle canzoni della sua band, gli Ismael. E i temi sono quelli: l’abbandono di una montagna che non si lascia abbandonare facilmente, che resta dentro.
Luchino era, nelle parole della canzone, quello che se ne va – “con la moto di tuo padre, dove noi non abbiamo il coraggio” – e qui, nel romanzo, che a un certo punto cita letteralmente il testo della canzone, è quello che torna e come sempre quando riappare scompiglia la vita della piccola comunità: “Arriva come il sole, come quelli a cui non importa niente. Per questo ce l’hanno con lui; eppure lo cercano al bar, quando torna, non possono ancora farne a meno, appesi a lui come all’unica vita che sarebbe valsa la pena di vivere”. Perché lui è uno che cade sempre in piedi, che gli altri amano, o odiano, o comunque invidiano. Un beniamino della vita, anche se in versione vagamente maudit: lui è “il filibustiere (che) arriva e incanta, i bimbi lo attorniano, i gatti lo seguono, tutto gli è sempre perdonato”. Anche da Daniele, il più fedele dei suoi seguaci: “Luchino era il furbo, Daniele l’entusiasta. Uno ha lanciato il sasso, l’altro non ha ritirato la mano”. E adesso Daniele – o Danielone, come lo chiamano, dopo che si è lasciato ingrassare a forza di birre, con il gusto di ostentare la propria bulimia disperata –, è uno sbandato, irascibile e aggressivo, dipendente dai soldi che chiede al padre, e al fratello. Tutto diverso da lui, Antonello: notaio come il padre Francesco, pragmatista e privo di scrupoli, “se lui ha deciso di fare una cosa, sicuramente c’è una strategia”, e “non potrà mai fare nulla di buono senza che gli venga attribuito un doppio fine”. Anche se in passato ha spesso garantito per il fratello, regolarmente licenziato da chi era stato persuaso ad assumerlo perché inaffidabile sul lavoro, ladro di portafogli dei compagni di lavoro, e dunque è Francesco, il padre, a cercar di farlo ragionare, a rincorrerlo, a cercarlo quando sparisce.
Ma i personaggi sono di più, e ciascuno – tutti tranne Luchino, significativamente – prende la scena a turno, raccontando i fatti dal suo punto di vista, come in uno spettacolo teatrale (di cui a inizio libro compare appunto il cartellone, ossia l’elenco dei nomi e dei ruoli).
Romanzo corale in cui le voci non si fondono in un coro, e le questioni del passato come le tensioni del presente restano in sospeso, filtrate da un linguaggio irto di espressioni e vocaboli ricalcati sul dialetto locale.
Inutile cercare una sia pur malinconica soluzione in questa storia: non è il taglio del bosco di Cassola, questo. Qui non è con il dolore di una perdita, con un lutto che si ha a che fare. È con il disordine delle vite.
Non c’è un senso da ritrovare in esistenze residuali, in bilico fra rimpianti e delusioni, rancori e rimorsi.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.