Francesco Guglieri, Leggere la terra e il cielo. Letteratura scientifica per non scienziati, Laterza 2020 (pp. 173, euro 17)
La passione dell’autore, ancora ragazzo, per l’origine dell’universo, i buchi neri, la relatività e la fisica quantistica: questo il punto di partenza. Il piacere di leggere tutto ciò che riguardasse l’origine dell’universo e la sua struttura, senonché “arrivava sempre un punto del libro in cui smettevo di raccapezzarmi (…) a un certo punto, immancabilmente, mi perdevo”. La curiosità da un lato, l’insufficienza dei propri strumenti dall’altro: un’esperienza nient’affatto ignota a molti, adulti compresi. Un’esperienza che non capita invece con questo libro. Perché? “Alla fine del liceo mi iscrissi a Lettere, e Shakespeare prese il posto di Hawking, il tempo perduto di Proust sostituì il tempo curvo di Einstein”. Ecco il punto: l’autore non è uno scienziato, e neanche un divulgatore, sul tipo di Gianfranco Pacchioni (L’ultimo sapiens. Viaggio al termine della nostra specie, il Mulino 2019, in queste note lo scorso 15 settembre). Guglieri è un umanista – un professore di Letterature comparate – che ci racconta dei libri che lo hanno assistito nella sua volontà di sapere. 19 capitoli, 19 libri, sempre messi a confronto però con altri libri, Hawking – per dire – con Philip K. Dick, la scienza con la letteratura, con la fantascienza in particolare. E così inizia il viaggio fra gli scogli dell’astrofisica e i misteri della biologia per giungere alla possibile “fine della terra”, fra evoluzione delle pandemie, possibilità (imminenza?) di una sesta estinzione e difficoltà, parrebbe insormontabile, a pensare la realtà del cambiamento climatico. “Dopo aver dedicato praticamente la totalità della mia vita adulta allo studio della letteratura”, e aver sperimentato “quella particolare qualità dei romanzi, il potere di sciogliere la malinconia”, è nei “libri di scienza” che l’autore scopre la stessa qualità. Le culture non sono due: basta saper viaggiare dall’una all’altra con la stessa apertura mentale, con lo stesso desiderio di sapere per rendersi conto dell’imprescindibile unità della cultura.
Risulta ben chiaro a questo punto, al lettore, come mai in esergo fosse citato un letterato alieno dalla cultura scientifica e pure ad essa sempre più interessato fino a intesserne le proprie narrazioni: “Se non tengo presente l’universo – diceva Italo Calvino – perdo il senso delle proporzioni”. Che è come dire: se non rischio ad addentrarmi in un sapere che non è il mio, quello in cui mi sono formato e nel cui ambito continuo a lavorare, mi mancheranno le coordinate per inquadrare anche la realtà di cui parlo. Se poi qualcuno, non tanto diverso da te sotto il profilo culturale, si prende la briga di raccontarti i passi che ha fatto è senz’altro il caso di seguirlo. Ossia di entrare in un libro come questo che – secondo la sintesi di chi l’ha scritto – “parla dell’inevitabile impossibilità di capire del tutto quello che sta succedendo in torno a noi, l’inevitabile tentativo di farlo, e l’imprevisto piacere che ne deriva”. Perché “occorre prendersi cura” della propria “curiosità”, ascoltando “storie e idee apparentemente lontane da noi”. E accettando conclusioni autorevoli, come quella di Steven Weinberg, pioniere della teoria del Big Bang: “Quanto più l’universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.