Hermann Broch, I sonnambuli. I.1888 – Pasenow o il romanticismo, Einaudi 2020 (pp. 230, euro 20)
I personaggi sono cinque: tre uomini – Joachim von Pasenow, suo padre, e Eduard von Brentand – e due donne – Ruzena e Elizabeth.
L’indecisione di Joachim, giovane aristocratico prussiano, fra la povera e sensualmente equivoca Ruzena e l’irreprensibile e ricca Elisabeth, è anche indecisione fra la norma paterna e la sua trasgressione, o superamento che sia, impersonata dall’amico Eduard: tutto qui, non fosse che la dolorosa oscillazione del protagonista è quella di chi vive il passaggio fra due mondi, quello dell’“onore” e dei valori della vecchia Europa ottocentesca e l’altro che sta implacabilmente subentrando, il mondo della borghesia che irride al romanticismo d’antan, ancora capace di riconoscersi nell’uniforme, che Joachim indossa, contrapposta all’abito del borghese, cui Eduard è invece passato abbandonando la carriera militare. E così Joachim si dibatte, fra il proprio conservatorismo, che l’altro definisce “pigrizia sentimentale”, e la consapevolezza di essere un ufficiale prussiano che non disdegna di essere “l’amante segreto di una donna pagata da altri uomini”. Anche lui un “senza patria” che ha perduto il “sentimento cristiano”, in definitiva.
Mentre il decadimento mentale di suo padre avanza – riproducendo su scala individuale il tramonto dei valori che il vecchio aveva creduto di trasmettere al figlio, dopo che il primogenito era caduto in guerra, “sul campo dell’onore” –, l’amletico, e nevrotico, Joachim si deciderà infine a sposare Elizabeth, saggiamente rassegnata a non seguire il vero amore che Eduard avrebbe potuto darle: l’immagine dei due sposi, che trascorrono la prima notte di nozze distesi l’uno accanto all’altra – lui senza essersi levato l’uniforme – guardando il soffitto della camera, chiude il romanzo. O meglio: il primo, da poco ripubblicato da Adelphi, dei tre romanzi che formano l’opera, essendo che dopo 1888 – Pasenow o il romanticismo, seguiranno 1903 – Esch o l’anarchia e 1918 – Huguenau o il realismo. Una duplice ambizione, infatti, quella di Broch: raccontare il decadere dei valori nell’Europa degli anni che si concludono con la Grande guerra, da un lato, e dall’altro costruire una struttura romanzesca la cui unità non può contare né sulla continuità della vicenda né su quella dei personaggi in scena.
Un Thomas Mann mancato, se si guarda al primo obiettivo: così almeno faceva notare Vanni Santoni in una recensione illuminante (comparsa su “La lettura” dello scorso 12 aprile), sottolineando come I sonnambuli esca all’inizio degli anni Trenta, quando il pubblico che aveva accolto cinque anni prima La montagna incantata stava scomparendo sotto i colpi dell’affermazione del nazismo.
Un innovatore destinato ad aprire una nuova strada se si guarda invece alla concezione letteraria: lo sostiene – nelle “Note” riportate dall’edizione Adelphi in coda al testo – Milan Kundera, che non esita a collocare I sonnambuli fra “gli altri grandi ‘affreschi’ del Novecento”, quelli di Proust, di Musil, e di Thomas Mann, appunto. E questo proprio in forza del fatto di voler individuare il filo rosso della narrazione non nell’azione o nella biografia, ma nel permanere dell’attenzione su “uno stesso tema (quello dell’uomo di fronte al processo di disgregazione dei valori)”.
Una postilla preziosa, quella di Kundera – da integrare, se se ne avesse interesse, con la sua prefazione all’edizione della trilogia dovuta a Mimesis nel 2010 – , senza la quale l’innegabile carattere datato del romanzo potrebbe finire per oscurarne il significato per altri versi ancora attuale: “Basta esaminare la nostra stessa vita – sulla scorta di quella di Pasenow – per vedere fino a che punto (un) sistema irrazionale influenzi i nostri comportamenti, vincendo la riflessione della ragione”. Rendendo per molti versi anche noi dei sonnambuli.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.