Alice Cappagli, Ricordati di Bach, Einaudi 2020 (pp. 256, euro 17,50)
Potrebbe suonare come una storia edificante, del tipo “la musica, la tenacia, la sfida” – come sintetizza la stessa autrice –, se non fosse la storia di lei stessa: Alice Cappagli, violoncellista per quasi quarant’anni nell’orchestra del teatro della Scala. Lo potrebbe comunque, se l’autoironia fosse solo un espediente di facciata e non la risorsa di una vita, che filtra nella scrittura. Una vita segnata già nei suoi primi da un incidente che determinerà l’handicap per superare il quale, appunto, lo studio del violoncello si proporrà come correttivo della debolezza della mano sinistra. Ma anche questo non basterebbe forse a coinvolgere il lettore se non comparissero personaggi animati da sentimenti contraddittori e comportamenti ambigui che solo uno sguardo a tratti spietato ma sempre ironico poteva rendere. A partire dai genitori, dalla madre, rosa per tutta la vita dal rimorso – era lei alla guida dell’auto in cui la figlia è rimasta lesa – e via via solidale con l’impresa della ragazza, osteggiata invece dal padre, “barricato” nei suoi studi e fermamente deciso a provvedere la figlia di una robusta cultura classica. E oltre ai genitori, gli insegnanti, oggetto di una descrizione che ne mette in rilievo caratteri che possono ricordare i romanzi scolastici di Starnone, ma che si fa minuziosa ed evolve nel corso della narrazione nel caso del maestro di violoncello, un uomo dal “nome da pirata”, Smotlak. Un uomo dal passato opaco e dallo stile di vita dubbio, uno giocatore d’azzardo sempre alle strette, ma un musicista geniale, un didatta inaffidabile, si direbbe, nella sua non di rado provocatoria estrosità, eppure efficace nella relazione che sa stabilire con l’allieva: con una lungimiranza che si guarda bene dal motivare non dà alcun peso all’invalidità della sua mano sinistra e, spesso rudemente, la sa spronare. Sa farle capire, soprattutto, che “Suonare non è solo un gradevole esercizio meccanico. Non è neanche un esercizio estremo o spericolato, o fine a se stesso, o una costrizione del destino”, ma “Fa parte dello stesso impulso che ti fa cercare una fontana quando hai sete, o ridere, o piangere, prende proprio quella forma lì, del bisogno. Come le allodole che cantano all’alba”. Altrimenti detto, l’essenziale è distinguere uno strumentista da un musicista: “Il musicista sente la musica anche se c’è silenzio”, mentre lo strumentista è “più un tecnico. Sa come si usa lo strumento”. Il che, filtrato attraverso l’esperienza della protagonista perennemente nelle mani dei dottori, si traduce in un paragone che avvicina il primo all’ortopedico, il secondo al radiologo: “il radiologo sa usare la macchina dei raggi, ti fa la lastra e la legge. Come lo strumentista. L’ortopedico tira le somme del risultato”.
Gli esami non finiscono mai, nel percorso di Cecilia: quelli della scuola di musica (al quinto, ottavo e decimo anno) preludono alle prove da superare per suonare in orchestra, ai concorsi per trovarvi un ruolo stabile, dal S. Carlo di Napoli alla Fenice di Venezia per approdare infine alla Scala. Ma non meno dure sono le prove che la vita imporrà alla protagonista. Dalla morte della madre al tradimento della compagna di studi fino all’amara scoperta della spregiudicatezza di Smotlak, che sembra distruggerne ogni ascendente, ma non il debito di riconoscenza che l’allieva ammette quando, nonostante tutto, ringrazia alla fine il maestro ricevendone l’ultima raccomandazione: “Ricordati di Bach, non di me”. Un romanzo pieno di riferimenti ad autori e composizioni, che dunque può apprezzare soprattutto chi ama la musica, è superfluo dirlo, ma forse soprattutto chi, fra i musicofili, resta curioso di capire come la si fa, che cosa c’è prima dell’esecuzione impeccabile, che cosa prova l’esecutore mentre fa il suo lavoro.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.