Giacomo Usardi. Il ritorno alle sue origini
La storia di Giacomo Usardi, gardesano doc, figlio di mezzadri e promessa della boxe. Dopo un terribile incidente si è rimesso a studiare ed è tornato alle sue radici
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Il tempo che passa non gli ha imprugnito il volto. Oggi, a 78 anni, Giacomo Usardi ha la pelle tostata dal sole, tutti i suoi denti, il corpo stagno e lo stesso peso di quando a 16 anni tirava di boxe, categoria medio-massimi, e fu adocchiato da Bruno Amaduzzi, manager della scuderia di Nino Benvenuti. Avrebbe potuto, chissà, diventare una gloria del pugilato nazionale, ma il destino per lui aveva in serbo un altro progetto.
Di Italie ne ha viste tante passargli sotto gli occhi. E poiché lui è un fabulatore consumato, come disceso dai lombi di un antico filò, potrebbe raccontarvele tutte. E allora la sua voce si fa epos, narrazione quasi mitologica, coniugando la sua umile vita con i grandi eventi, il microscopico con l’universale. Giacomo è un uomo che può voltarsi indietro con fierezza: non ha buttato via nemmeno un’ora dei suoi giorni. «La grandezza di un uomo — ha detto Ludwig Hohl, scrittore svizzero amato da Dürrenmatt e Handke — è proporzionale alla grandezza del passato che riesce a risvegliare». E il passato investito in memoria è il capitale umano di Giacomo.
È venuto al mondo a Gaino, frazione di Toscolano, entroterra gardesano a vocazione rurale ai margini del turismo costiero. I suoi erano mezzadri e i figli dei mezzadri avevano allora davanti il medesimo avvenire dei genitori, tanto valeva abitarcisi fin da subito, dando una mano in campagna, andando a lavorare per i padroni o per altri mezzadri, a «fa ‘l famei»: cavar l’erba dalle vigne, portare a pascolare le capre, ristorare con l’acqua fresca i falciatori. La miseria contadina non contemplava vacanze negli anni dell’immediato dopoguerra: bisognava stringere i denti a culo stretto, ma tenere anche in caldo la speranza, pronti al balzo, a cogliere l’assist della fortuna. Nel 1957 viene assunto come operaio in cartiera. Turni oberanti, anche dodici ore al giorno se non arrivava il cambio, si mangiava in piedi la pastasciutta in gavetta senza smettere di lavorare. Col suo primo salario in famiglia arriva la bombola del gas, prima anche il caffè si faceva sulla brace. E sempre pescando dal suo gruzzolo di piccolo risparmiatore si compra una bicicletta di seconda mano, un’Atala, cui applica un manubrio da corsa, suggestionato dalle imprese di Bartali e Coppi.
Lo sport assorbe l’argento vivo che Giacomo si sente addosso. Ogni giorno, dopo aver smontato dal turno, a cavallo di un motorino insieme ad un amico e poi da solo con l’autobus, raggiunge la palestra Tomasoni a Brescia, per calcare il quadrato e prendere a pugni il sacco da pugilato. Il suo battesimo agonistico sul ring — a soli 17 anni — avviene al vecchio stadio Rigamonti. Giacomo è veloce, tecnico, ma non abbastanza tempo allenato. È una bella promessa da coltivare. Ma quando Bruno Amaduzzi gli propone l’ingaggio per una tournée americana al seguito di Benvenuti, lui dice no grazie, perché teme di perdere il posto sicuro in cartiera.
Nel 1961 parte per il servizio di leva, artiglieria da montagna. Dopo il congedo, si rende conto che fare l’operaio in fabbrica è un futuro che gli sta corto. Consegue il diploma di terza media alla scuola serale di Salò, studia da fisioterapista e in quel mestiere part time si distingue con merito: lo chiamano occasionalmente da Villa Gemma e dall’ospedale di Gargnano. Poi, siamo nel 1978 — e da ormai dieci anni è sposato con l’Andreina — abbandona la cartiera e si butta nel commercio: venditore ambulante per mercati, ramo abbigliamento caccia e pesca. Un terribile incidente lo ferma in una galleria della Gardesana: esce vivo per miracolo, privo del furgone e del suo carico, ancora povero in canna. Giacomo non si scoraggia, gli rimane ancora una vita di scorta, l’ultima, quella che è più vera ed è sempre stata la sua. «La disgrazia — commenta — mi ha messo nelle condizioni di scegliere la vita che volevo, una vita migliore, economicamente sufficiente. Sono senza padrone, un uomo libero».
Torna alle terra, alle sue origini contadine, dopo aver completato corsi in Comunità montana, collezionando ulteriori diplomi. Diventa olivicoltore e in comodato d’uso recupera oltre quaranta ettari abbandonati in una zona in cui l’olio, quello del Garda, ha tradizione millenaria ed è una prelibatezza conosciuta in tutto il mondo. Riconosce casaliva e gargnano, due tipologie di olive del nostro patrimonio varietale del territorio a colpo d’occhio, tocca la corteccia come un terapeuta. Carlo Simoni, un Claude LéviStrauss più umanista, ha raccolto la testimonianza di Giacomo in un bellissimo libro (Costruire una vita. Una storia gardesana, Cierre edizioni) e lo ha paragonato a L’uomo che piantava gli alberi di Jean Giono. Vero. A me ricorda anche Il Joseph Wayne di Al Dio sconosciuto di John Steinbeck, che seppellisce la placenta della moglie sotto la quercia davanti a casa. Un atto di restituzione alla Natura, di cui l’uomo fa parte e non ne è antagonista. Nella sua aurea modestia Giacomo offre a noi, all’altro, con il suo lavoro per l’ambiente, ciò che l’uomo possiede di più limitato, e dunque prezioso, il suo tempo. E lotta perché il mondo rimanga com’era, come lo ha trovato. Lui sì blue & green.