Albert Camus, Conferenze e discorsi, Bompiani 2020 (pp. 339, euro 22)
Alcuni libri più di altri possono essere letti in modi diversi. Questo può essere letto per esempio cercando, e trovando, conferma dell’attualità di Camus anche oltre La peste, il romanzo che è sembrato a molti la lettura più pertinente nella fase del (primo) lockdown. Il Camus che leggiamo qui non è il romanziere, infatti, né il saggista, ma il conferenziere, l’intellettuale che si pronuncia sulla condizione dell’uomo a partire dalla situazione seguita alla seconda guerra mondiale, che si interroga sulla crisi della nostra civiltà,senza abbandonare la speranza che l’uomo possa ritrovare “quell’inclinazione verso l’uomo senza la quale il mondo sarà sempre un’immensa solitudine”. Ma anche ponendo obiettivi concreti, come quello di riconoscere una “cultura mediterranea” e renderla operante, o individuando alla radice questioni irrisolte: “L’Europa – leggiamo ad esempio in una conferenza del 1949, pensando alla “fortezza Europa” che non poche decisioni politiche oggi annunciano o di fatto praticano – non guarirà se non rifiuterà di adorare l’evento, il dato di fatto, la ricchezza, la potenza, la storia quale si fa e il mondo così come va, se non accetterà di vedere la condizione umana così com’è”.
Ecco allora un altro modo di leggere queste pagine: verificare nel concreto del discorso che cosa significa(va?) essere un intellettuale. Avendo presente l’opzione che Camus dichiara senza mezzi termini: “Preferisco gli uomini impegnati alle letterature impegnate”. Opzione di cui danno ampia testimonianza gli interventi raccolti in questo libro, puntuali e calzanti rispetto agli eventi di cui lo scrittore è osservatore partecipe. Occorre però non dimenticare – e non possono non venire in mente le polemiche di oggi contro i colti e i competenti così come i vezzi battaglieri di non pochi facitori d’opinione – che “Se alla parola intellettuale si associano spesso tanto disprezzo e tanta riprovazione è perché essa implica l’idea del polemista amante delle astrazioni incapace di guardare alla vita e incline a preferire sempre la propria personalità a tutto il resto del mondo”. Camus è lontanissimo dall’illusione velleitaria di chi pensa che “spetta all’intelligenza di cambiare la storia”, ma è convinto che compito di essa sia “quello di agire sull’uomo, che invece la storia la fa”. E il primo passo è “non permettere mai alla critica di trasformarsi in insulto, ammettere che il nostro avversario possa avere ragione e che in ogni caso le sue ragioni, anche sbagliate, possano essere disinteressate”, senza per altro nulla concedere alle “filosofie dell’istinto”, a quel “romanticismo di bassa lega che preferisce il sentire al comprendere”: la parola populismo non faceva parte del lessico di Camus… Il quale comunque aveva esperienza diretta del fatto che “Colui che prova a comprendere senza preconcetti, colui che parla di obiettività viene subito accusato di sofisticheria e denunciato per le sue pretese” (neanche l’espressione radical chic era ancora entrata nell’uso…).
Ma tornando al tema cui si accennava, a quella crisi di civiltà che può esser letta come “crisi dell’uomo”, la constatazione della sua esistenza non richiede purtroppo argomentazioni complicate: “c’è una crisi dell’uomo poiché nel nostro mondo la morte o la tortura – metti, la tragedia della traversate mediterranee o quella dei lager libici – può essere guardata con un sentimento di indifferenza o di interesse amichevole, o di curiosità, o di semplice passività (…) senza l’orrore e lo scandalo che dovrebbe suscitare, poiché il dolore umano è accettato”, messo in conto, fatalisticamente o cinicamente (sempre che ci sia davvero una differenza sostanziale fra i due atteggiamenti). Le radici di questa “degenerazione dei valori” stanno comunque a monte, nel fatto che “un uomo o una forza storica non sono (…) più giudicati in funzione della loro dignità, ma in funzione del loro successo”, all’interno di un orizzonte di “incertezza assoluta dell’uomo occidentale rispetto al proprio futuro”: “la semplice parola futuro” è ormai “emblema di ogni sorta di angosce” – e, si badi: Camus non poteva annoverare fra queste quella suscitata dalla crisi ambientale – e non potrebbe sentire diversamente l’uomo “costretto – com’è – a vivere nel presente (lontano dalle verità naturali, dai passatempi tranquilli e dalla semplice felicità”. Costrizione, questa, che tuttavia non impedisce di sentire che “da tempo viviamo un profondo disagio e non siamo più sicuri del nostro futuro e che questa, insomma, non è una condizione normale per presunti uomini civili”.
Non deve scoraggiare il fatto che le occasioni alla base delle diverse conferenze appartengano a tempi e contesti relativamente lontani. In queste pagine, oltre a immagini che resistono al tempo – una per tutte, “I francesi della resistenza che ho conosciuto e che leggevano Montaigne sui treni dove trasportavano i loro volantini” – ricorrono prese di posizione, spesso espresse in forma aforistica, ancora in grado di parlarci. Qualche esempio: “Un uomo non pensa male perché è un assassino. È un assassino perché pensa male. Perciò si può essere un assassino senza apparentemente aver mai ucciso”; occorre “ridimensionare la politica attribuendolo il ruolo secondario che le spetta”: “far funzionare le cose, non risolvere i nostri problemi interiori. Ignoro, per quel che mi riguarda, se esista un assoluto. Ma so che non è di ordine politico” e “non concerne tutti; concerne ognuno di noi singolarmente. E occorre impostare i rapporti – eccolo, il contributo necessario della politica – in modo che ciascuno abbia l’agio interiore di interrogarsi sull’assoluto”. E ancora: “Vogliamo ritrovare la via verso una civiltà in cui l’uomo, senza distogliersi dalla Storia, non le sarà più asservito, in cui il dovere che ogni uomo ha nei confronti degli altri uomini sarà controbilanciato dalla riflessione, dal tempo a propria disposizione e dalla parte di felicità che ciascuno deve a sé stesso”. Fino a giungere al discorso pronunciato nel 1957 a Stoccolma, ricevendo il Nobel per la letteratura, nel quale Camus intende chiarire l’idea della sua arte e del suo ruolo di scrittore: “Non posso vivere, personalmente, senza la mia arte. Ma non ho mai posto questa arte al di sopra di tutto. Se mi è necessaria, invece, è perché non si separa da nessuno e mi permette di vivere, quale sono, alla pari con tutti”. E tuttavia, lo scrittore, “Per definizione non può mettersi, oggi, al servizio di coloro che fanno la storia: è al servizio di coloro che la subiscono”. Il che coincide con la consapevolezza che il compito più importante non è credere velleitariamente di poter cambiare il mondo: è un compito “persino più grande” e “Consiste nell’impedire che il mondo vada in pezzi”.
Non solo un invito alla lucidità esprime questo libro: sono anche coraggio – e speranza, nonostante tutto – che la lettura trasmette.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.