Maja Lunde, Gli ultimi della steppa, Marsilio 2020 (pp. 507, euro 20)
Un romanzo fatto di tre romanzi, scritti in prima persona. Il narratore onnisciente c’è, ma non si vede, non interviene con la sua voce ma con la sua regia, che fa avanzare in parallelo, alternandole nei capitoli, le tre storie, i diversi personaggi che le animano, le differenti epoche in cui le loro vicende si svolgono.
Uno zoologo di San Pietroburgo all’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento, una veterinaria tedesca all’inizio dei Novanta del secolo scorso, una contadina – anche se non per vocazione – del 2064. Michail, Karin, Eva. Ognuno con il suo bagaglio di esperienze e dolori. Tutti mossi da un unico fine: la sopravvivenza dei takhi, i cavalli selvatici della Mongolia. I cavalli più antichi, quelli che si vedono nelle pitture rupestri: una storia vera la loro, vedi alla voce Equus ferus przewalskii (in wikipedia, ovviamente). Parenti dei nostri cavalli, anche se con due cromosomi in più.
Li si credeva estinti, verso fine Ottocento, ma il giovane zoologo russo va a cercarli, sull’onda dei sogni che fin da bambino gli hanno ispirato gli avventurosi membri della Società Geografica Imperiale Russa che gli accadeva di incontrare nella sua città. E dunque, trovata la guida ideale in un “cacciatore di animali vivi” – che poi rivende a giardini zoologici e a circhi come quello di Barnum –, lascia a malincuore la madre, con cui vive, e parte per la lontanissima, ai tempi, Mongolia, dove dovrà fare i conti con paesaggi, uomini e culture che sembrano di un’altra epoca. E qui il profumo che si sente è quello del Capitano Arseniev e della spedizione che lo aveva portato a incontrare Dersu Uzala, “il piccolo uomo della grandi pianure” protagonista del film russo-nipponico del 1975, diretto da Akira Kurosawa.
Li troveranno i cavalli selvatici, Machaile il suo mentore, e ne porteranno alcuni esemplari in Europa. Gli stessi che poco più di un secolo dopo Karin, nonostante i suoi 56 anni, deciderà di riportare da dove erano venuti, là dove la caccia, soprattutto, li aveva sterminati: in Mongolia. Il familiare cui più è legata, però, Karin non lo può lasciare: il figlio Mathias, trentaquattrenne mai cresciuto e tossicodipendente, la segue, come in un viaggio di rigenerazione. E là, nella steppa, Karin troverà un aiuto decisivo in Juci, un biologo esperto dei luoghi.
Ma la storia non si ferma. Anzi, conosce una cesura epocale, che Isa, figlia della protagonista della terza storia, Eva, riassume efficacemente: “Le condizioni climatiche in cui viviamo sono opera dell’uomo, gli sono bastati sessant’anni. Dagli anni Ottanta [del Novecento] il peggioramento è stato inarrestabile. Sessant’anni di emissioni inquinanti e il gioco è fatto. Ottimo lavoro”, il cui risultato è una vita ridotta alla sopravvivenza, esposta alla violenza dei pochi rimasti. Perché gli altri, la maggioranza, è partita, per andare più a nord, dove le condizioni ambientali non sono ancora tanto degradate: è l’Arpaia di Qualcosa, là fuori (Guanda 2016, in queste note il 16 maggio 2016), a tornare alle mente, mentre la tenacia disperata di Eva richiama quella della protagonista della Parete di Marlen Haushofer (e/o 2018, in queste note il 6 gennaio 2019).
Un esempio di coniugazione riuscita fra letteratura e consapevolezza della crisi ambientale, dunque, come del resto il precedente La storia delle api (Marsilio 2018), e un appello accorato, in continuità con quello, a guardare al passato per capire la crisi climatica attuale e rendersi conto della sua gravità in un futuro prossimo.
Ma sarebbe riduttivo, e fuorviante, pensare di doversi predisporre alla lettura di un romanzo a tesi. Negli Ultimi della steppa abbiano a che fare con storie di donne e uomini alla ricerca dell’autentico e dell’indicibile che nella relazione si desidera: l’intimità, il contatto dei corpi come tramite di un sentimento comune, di una motivazione essenziale per vivere e per trasmettere il desiderio di vivere di generazione in generazione.
È anche La strada, di Cormac McCarthy, a balenare fra le pagine di questo romanzo, nella storia distopica ma non disperata che lo corona, in particolare. Ma una visione critica e tuttavia lucidamente aperta al futuro percorre tutt’e tre le storie, e illumina il rapido passaggio che, nelle pagine conclusive, le mette in relazione: i takhy, “sarebbero scomparsi se l’uomo non avesse voluto diversamente. Se un tempo un russo e un tedesco non avessero fatto un lungo viaggio fino in Mongolia per catturare un animale che tutti pensavano estinto; se gli addetti ai giardini zoologici e gli operatori delle riserve naturali di tutto il mondo non si fossero presi cura di loro ridando vita alla specie; se una veterinaria tedesca negli anni Novanta non li avesse riportati nella loro terra di origine facendo tutto il possibile per rendere la specie forte e indipendente”.
Ma ancor prima di arrivare a questa sintesi, le pagine si sono succedute l’una all’altra con naturalezza. Perché mentre leggevi una delle tre storie sentivi le altre due, la loro presenza, il loro farsi.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.