Adriano Prosperi, Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Einaudi 2021 (pp. 122, euro 13)
Ogni epoca ha i suoi maestri di pensiero o, se preferiamo, i suoi intellettuali di riferimento: da tempo è tramontata quella che li aveva individuati negli storici ed è sorta quest’altra, in cui la parola spetta agli economisti (o a una loro sottospecie, i banchieri*). I quali alla storia sembrano allergici, convinti che il nostro sia “un Paese troppo rivolto al passato”. Ha buon gioco l’autore a rilevare, in tempi come quelli che viviamo, di quanto sia vero il contrario: “Se lo fosse stata – rivolta al passato – (l’Italia) avrebbe mantenuto e rafforzato le difese che secolo dopo secolo erano state erette contro la minaccia delle epidemie”. Non si tratta solo di aver dimenticato – si fa per dire – il ruolo di quella che abbiamo imparato a definire “medicina territoriale”. La perdita di memoria è andata più in là, giungendo a oscurare la consapevolezza che “Epidemie e pandemie sono il sordo rumore di fondo che accompagna l’evoluzione storica della specie, ne azzera le conquiste, la richiama alla sua condizione di precarietà e di dipendenza dalla natura”.
È sulla risposta al “flagello biblico del Covid-19” che il discorso di Prosperi si mette alla prova, trovando terreno quanto mai appropriato alla sua tesi di fondo: quella che si è perpetrata negli ultimi decenni ed è tuttora incorso è una vera e propria “distruzione del passato”, come recita il sottotitolo del libro, una citazione in realtà, dell’Hobsbawm del Secolo breve (“la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo [e la diagnosi vale tanto più per i millenials] è cresciuta in una sorta di presente permanente”).
Ma attenzione, “la crisi [della memoria del passato] si avverte in realtà nelle due direzioni del passato e del futuro”. Quell’inceppamento della trasmissione dell’eredità culturale di cui si diceva si somma all’ignoranza, soprattutto fra i più giovani, della storia recente, “un’ignoranza che si allea con un voltare le spalle al futuro, una specie di malattia della speranza”, che non è, dunque, che l’altra faccia della “malattia dell’oblio”. Quella malattia di cui si hanno indicatori evidenti: nel 2004 meno del 3% degli italiani credeva che la Shoah non fosse mai esistita, oggi sono più del 15. Colpa della scuola, come si va dicendo? Si possono certo indicare responsabilità precise in questo senso (e l’autore vi si sofferma), senza dimenticare però che altro è intervenuto ad “allontanare vertiginosamente il presente dal recente passato”: la rivoluzione informatica. E, potremmo aggiungere, le pratiche – pervasive fino all’ossessività – da essa innescate, fra i giovani e i giovanissimi in primo luogo. Le pratiche ma anche il sapere che ne consegue: “Quello che si imparava cercando e leggendo un libro (…) era un cibo che entrava nel sangue e lo nutriva a lungo. Quello che si trova cliccando sullo smartphone lo si dimentica quasi subito”. Ma non si tratta di deprecare i tempi assegnando senza distinguo uno statuto di superiorità alla situazione del passato, quanto di riconoscere, pacatamente – e con qualche amarezza? – che “non c’è conquista senza perdite” e che “il cammino delle conquiste umane non è rettilineo”. Il che non porta tuttavia a una rassegnata constatazione dell’imperscrutabilità dei processi storici in atto e quindi a una sostanziale messa in mora del pensiero critico: il libro è denso di riferimenti inequivocabili. Dagli effetti nefasti del primato assegnato, non solo dai populisti, a disparate e abborracciate “identità” alla ripulsa di temi e parole d’ordine in forza di un loro preteso carattere “divisivo”; dalla “scomparsa del futuro” senz’altro determinata anche dal blocco della mobilità sociale all’assedio con cui “il falso e il finto” stringono il “vero”, mettendolo in discussione, relativizzandolo, marginalizzandolo in quanto “noioso”.
Non sono solo modi di pensare diffusi a cadere sotto la lente critica dell’autore. Anche questioni assai più complesse e dibattute sono prese in considerazione: memoria – e testimonianza ancora viva, per ora – dei crimini nazifascisti e negazionismo, così come memoriali e dichiarazioni ufficiali, sul tipo di quella espressa da un voto solenne del Parlamento europeo circa l’”importanza della European Remembrance per il futuro dell’Europa”: “Che si sia preferito parlare di remembrance e non di storia – fa notare Prosperi – rientra in una tendenza generale a sfumare la durezza della storia tra le nebbie della memoria” e, nella sostanza, nella conclusione che i totalitarismi e le catastrofi da essi prodotte appartengono a “un passato che può essere dimenticato”.
Del resto, dimenticare è una “funzione comune alla memoria e alla storia”, e “lo strato del ricordato e del ricostruito (…) galleggia come una sottile zattera sull’oceano del dimenticato”. Tutto sta, per lo storico, nell’individuare “ciò che si deve raccontare”. E la sua scelta non è affatto estranea a quel che resterà nella memoria e definirà l’orizzonte mentale di chi storico non è. Né è mai definitiva: “I progressi della conoscenza [del passato] si hanno quando per una qualche ragione si prende coscienza del dimenticato”, nella consapevolezza che “il nodo che lega passato e futuro è fatto di memoria e speranza”.
*Questa nota è stata scritta prima della nomina di Mario Draghi
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.