Andrea Bajani, Il libro delle case, Feltrinelli 2021 (pp. 251, euro 17)
Non è il primo a raccontare di sé attraverso le case abitate, o comunque vissute. Viene in mente, per esempio, il Rigoni Stern delle Mie quattro case, da quella degli antenati, non abitata da lui, alla casa natale, a quella progettata durante la prigionia e poi, infine, realizzata al ritorno.
Anche qui troviamo case reali e altre solo immaginate. Sono tutte queste case a reggere la trama. “Questo romanzo – ha chiarito lo stesso Bajani in un’intervista recente* – si può facilmente riassumere nella frase la storia di un uomo raccontata attraverso le case in cui ha vissuto, a cui si potrebbero aggiungere dettagli come la storia di un matrimonio, il ritratto di una famiglia esperta in autodistruzione o i segni lasciati nell’immaginario dalle morti di Pasolini e Moro”. E si potrebbero aggiungere le case del tutto metaforiche come quella dei “ricordi fuoriusciti” o l’altra, “degli appunti”: la memoria fatta anche di oblio, effettivo o apparente, la prima; il taccuino dello scrittore, la seconda.
Ma perché le case? Perché “una casa è il punto in cui convergono l’intimità prevedibile di un essere umano, la materialità degli elementi di costruzione, il sudore degli operai, il calcolo dell’ingegneria che li assembla, la politica dei piani urbanistici, e la liquidità del denaro”. Punto di incrocio di vicenda individuale e storia collettiva, dunque.
Ciò detto, è innegabile che, dopo qualche casa – cioè: dopo qualche capitolo –, la tentazione sia quella di ricomporre in sequenza cronologica i fatti, ma subito si intuisce che non sarebbe solo un lavoro inutile. Sarebbe anche contravvenire all’intenzione dell’autore, che ha inteso costruire “una vera polifonia in cui, andando su e giù per il tempo, tra il 1968 e il 2021 (…) ogni casa contiene fotogrammi di una stessa vita. O indizi, potremmo anche dire”.
Lo sappiamo: cronologia e autobiografia non combaciano, la memoria non è un calendario.
Più collaudata la soluzione adottata per identificare i personaggi: Padre, Madre (come nei romanzi di Francesco Pecoraro**) e Sorella, Moglie, Parenti, ma soprattutto Io: “è più facile – e rassicurante – dire io riassumendo in un pronome tutti quelli che siamo stati. Tanto non ci sono testimoni. Tranne le case.” Le case, il loro spazio protetto che non sempre protegge, il luogo di altri che, anche se sono andati, continuano a essere presenti per quel che occupano dei nostri pensieri, della nostra anima: “se non ci sta nessuno, dentro una casa, quella casa non c’è”, si leggeva già in un altro libro di Bajani, di otto anni fa***. Ma il lutto per la scomparsa di chi non la abita più è a sua volta una casa da accudire: “Il lutto, in fondo, è il tentativo di abitare il vuoto di qualcuno che si è perso. Questa storia [la storia che evocava la figura di Antonio Tabucchi] l’ho scritta così, cercando di arredare quello spazio con il mio mobilio. Qualcosa l’ho preso per l’occasione, ma in generale ho cercato di arrangiarmi con quel che avevo”.
Ha lavorato per anni, a questo nuovo romanzo – assicura l’autore –, ma è certo che la sua pubblicazione non poteva essere più tempestiva, in tempi – in un’epoca, si sarebbe ormai tentati di dire – come quelli che viviamo, che viviamo soprattutto dentro le nostre case, appunto.
E dunque: Io è il protagonista, trattato in terza persona per tutto il romanzo, Io come “semplificazione”, perché “noi possiamo supporre che la persona che diceva io a tre anni, quella che parlava di sé dicendo io a sedici anni, o a ventiquattro, o a quarantacinque, siano davvero la stessa persona”. (“Perché scrivere? – si chiedeva Gregor von Rezzori. Per scoprire se la persona che diceva io a cinque anni e la persona che usa lo stesso pronome a 35, 53 o 78 anni (…) hanno una continuità, se l’io persiste”).
Le case ma anche le cose, le cose che le abitano insieme a noi, almeno finché non ce ne andiamo. Perché allora anche loro, le cose, vanno incontro a un cambiamento di vita radicale: sono tra le più vivide e struggenti le pagine che ospitano la descrizione del loro modo di essere quando ormai giacciono in uno di quei depositi dove finiscono le cose scartate, “stoccate dentro uno spazio di all’incirca mille metri quadri, illuminato dalla luce glaciale dei neon allungati sul soffitto”, “residuato di centinaia di vite precedenti, poi disassemblate, disposte dentro il capannone e messe in vendita a un prezzo umiliante”, “famiglie di mobili sgomberate e poi appaiate”. Quel che rappresentano è “il fallimento venduto a poco prezzo, alloggi svuotati per decesso o bancarotta, case messe all’asta – oppure per disinteresse, noia del gusto e del possesso; o anche eredità liquidate dai beneficiari, raccapricciati dall’estetica dei progenitori”. È fra queste cose che “il presente si rifornisce per i suoi collage, per mosaici fatti di frantumi del Novecento”.
Una scelta, questa di raccontare passando di casa in casa – reale o metaforica che sia – che permette all’autore di non dire tutto, di attenersi cioè a quel precetto fondamentale della buona scrittura che raccomanda di lasciare al lettore il compito di colmare lacune e scogliere allusioni, e questo, si badi, senza piegarsi all’asciuttezza di Hemingway, padre di quel precetto, né alla stringatezza minimalista di Carver, ché anzi la lingua e il periodare di Bajani sono ricchi di suggestioni e sfumature: basta leggere le pagine in cui a tenere il campo è un personaggio non umano, una tartaruga, compagna di giochi del bambino, custode longeva della casa. Emblema, con la sua lentezza, la sua tenacia, la durezza minerale del suo carapace, della necessità di bastare a sé stessi e di resistere che la vita, specie se ha dovuto fare le sue prime prove in una famiglia come quella di Io, impone.
Una delle tante famiglie che non ha saputo costruire, e custodire, un proprio lessico. Del quale tuttavia non è detto che i figli, dopo che le vicende vissute e il tempo trascorso l’hanno disgregata, non provino nostalgia. E dunque provino a rintracciarlo negli spazi senza parole delle case, nello sguardo silente delle cose.
*“La Stampa – Tuttolibri” dello scorso 20 febbraio
**Francesco Pecoraro, Lo stradone, Ponte alle Grazie 2019, in queste note l’1 luglio 2019
***Mi riconosci, Feltrinelli 2013
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.