Emmanuel Carrère, La settimana bianca, Adelphi 2021 (pp. 139, euro 12)
Si è abituati a considerare il romanzo di formazione come la storia di un, magari travagliato, cammino verso la consapevolezza e l’appaesamento nel mondo in cui si vivrà il resto della vita. Come se gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza non fossero invece, per molti, quelli nei quali si delinea e poi si cristallizza la nevrosi, se non di peggio, che segnerà l’esistenza a venire.
È il caso di Nicolas, bambino di nove anni, che nel corso della settimana bianca cui a malincuore partecipa vive l’esperienza che lo condannerà a una vita nella quale “non ci sarebbe stato perdono”. E non perché si sia reso responsabile di un’azione riprovevole: la colpa non necessariamente è conseguenza di una propria mancanza. Spesso la si eredita, a dispetto della convinzione che le colpe dei padri non ricadono sui figli.
Nicolas – è dal suo punto di vista che vediamo gli avvenimenti, in puro stile Henry James – è un bambino fragile, timido, cagionevole, in linea con l’imprinting assecondato, se non determinato, dall’iperprotettiva madre. Ma è anche un essere concavo, sempre in attesa di poter colmare il suo vuoto con affetti e riconoscimenti: del compagno di scuola, della maestra, dell’animatore del gruppo di bambini in vacanza soprattutto, Patrick, esempio vivente della funzione paterna svolta da chi padre biologico non è, in un’epoca in cui il discorso sulla morte del padre non era tanto pervasivo quanto in seguito (il romanzo è del 1995, di qualche anno successivo a I baffi*) ed è l’ultimo scritto da Carrère prima della scelta di passare a forme nuove, ai “romanzi-verità”). Perché qui sta il punto: un padre Nicolas ce l’ha, ma è quell’uomo contraddittorio e imperscrutabile, umorale e ambiguo che l’accarezza e poi lo dimentica, lo accompagna con la propria auto alla settimana bianca e poi si scorda di lasciargli lo zaino con gli indumenti che gli serviranno.
Potrebbe essere finita qui: l’avvio della carriera di un infelice. E invece no. Carrère non pare di quelli convinti che non ci sia bisogno di episodi reali perché il trauma si produca: tutto quello che Nicolas sente ha un riscontro preciso. Nella condotta innominabile del padre, confermata nei giorni passati in montagna ma che già da tempo aveva scavato una falla oscura nella vita della famiglia.
È una decisione più grande di lui quella che il bambino sembra prendere alla fine: “non parlare più, mai più. Ormai era l’unica forma di protezione che riuscisse a immaginare. Neanche una parola, da lui non avrebbero cavato più niente. Sarebbe diventato un blocco compatto di silenzio, una superficie liscia e scivolosa contro cui la sventura sarebbe rimbalzata senza trovare un accesso”. La sventura, forse, ma non il senso di colpa irreversibilmente impresso nella sua anima innocente.
*Emmanuel Carrère, I baffi, Adelphi 2020, in queste note lo scorso 6 settembre
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.