Emanuele Trevi, Due vite, Neri Pozza 2021 (pp. 125, euro 15)
Basta un paio di pagine, e ti senti a casa. La casa in cui ti è sembrato di abitare leggendo il libro precedente di Trevi, Sogni e favole*. Lo stesso tono di resoconto pacato, capace di farti sentire in ogni momento che quel che è capitato a lui non ha nulla di eccezionale: potrebbe capitare anche a te che stai leggendo. L’eccezionalità è se mai dalla parte delle persone che lui ha incontrato e di cui tiene a parlare, a raccontare. Ma si capisce alla svelta che non di eccezionalità si tratta, ma di unicità, e per dirne occorre allora adottare uno “stile” appropriato. “Più ti avvicini a un individuo – infatti –, più assomiglia a un quadro impressionista, o a un muro scorticato dal tempo e dalle intemperie: diventa insomma un coagulo di macchie insensate, di grumi, di tracce indecifrabili. Ti allontani, viceversa, e quello stesso individuo comincia ad assomigliare troppo agli altri. L’unica cosa importante in questo tipo di ritratti scritti è cercare la distanza giusta, che è lo stile dell’unicità”. Quello stile che permette di fissare in poche righe il carattere saliente di una persona. Come l’amico Rocco, seguito sin dall’infanzia da “questo compagno segreto, da quest’ombra vanificatrice, da questa orrenda e inutile succhiasangue che è l’infelicità”, mentre “Nel fondo dell’anima di Pia, anche nei momenti più difficili e disperati, resisteva sempre una vocazione inestirpabile ad accudire, proteggere – esseri umani, animali, vegetali”.
Rocco Carbone e Pia Pera, due scrittori, due vite. Uniche come la loro scrittura, quella del primo in particolare, dominata da un “principio basilare”, “l’uniformità”, per cui la “narrazione, letteralmente, non batte ciglio, anche sporgendosi su abissi incommensurabili di angoscia e dolore”, essendo che per lui “la sfida è sempre la stessa: opporre al caos, alla forza del negativo (…) la certezza di un controllo razionale”. Una sfida vissuta nell’intimo, da un uomo al quale viene “diagnosticata una personalità bipolare”. Ma proprio qui è il punto, “una delle chiavi più importanti dell’opera di Rocco”: “La psichiatria (…) per essere efficace deve astrarre, ridurre la molteplicità dei casi e dei sintomi a delle costanti, creare delle definizioni: isteria, paranoia, depressione, episodio maniacale… Al contrario, la letteratura deriva la sua ragion d’essere dal rifiuto di ogni generalizzazione: è sempre la storia di quella persona, murata nella sua unicità, artefice e prigioniera della sua singolarità”.
Si fa evidente, via via che leggiamo, l’affinità fra l’infelicità dell’amico e la visione tragica del mondo e della vita esplicitata senza remore in Sogni e favole: “l’esistenza, dal punto di vista individuale, non possiede nessun valore – conta solo la specie”, anche se ci abita la “certezza illusoria di essere destinatari di un messaggio”, per cui “possedere un destino è la suprema finzione”. Anche se “solo nel riparo delle nostre finzioni l’esistenza è tollerabile se non sempre felice” e “costruire una versione narrativa di noi stessi” è l’unico modo di preservarci “dalla follia e dalla disperazione sempre in agguato”.
Diverse le ragioni della vicinanza avvertita, e lungamente coltivata, con Pia Pera, riassumibili in una sorta di “incanto” ammirato per la sua “anima prensile e sensibile. Incline all’illusione, facile a risentirsi”, a quarant’anni ancora nutrita di “preoccupazioni da adolescente” e capace di conservare “intatta, come un capitale al quale non poteva rinunciare, la sua predisposizione innata all’esperimento”, nel lavoro intellettuale come nelle relazioni, sia d’amicizia che d’amore; coerente fino all’ultimo nel seguire la strada che l’ha condotta “a qualcosa che è insieme metafisico e fisico al grado supremo: un giardino”, quel giardino a cui non dirà della propria morte imminente alla quale la malattia degenerativa la condanna (Al giardino ancora non l’ho detto, Ponte alle Grazie 2016**).
Due persone, due vite diverse sono quelle che ci vengono raccontate, non nella loro successione di eventi ma nel loro senso, in modo tale che per questa via in certo modo continuano, anche dopo la loro fine, “Perché noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene. E quando l’ultima persona che ci ha conosciuto da vicino muore, ebbene, allora davvero noi ci dissolviamo, evaporiamo, e inizia la grande e interminabile festa del Nulla, dove gli aculei della mancanza non possono più pungere nessuno. (…) Ne deduco che la scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti, e consiglio chiunque abbia nostalgia di qualcuno di (…) non pensarlo ma scriverne, accorgendosi ben presto che il morto è attirato dalla scrittura, trova sempre un suo modo inaspettato per affiorare nelle parole che scriviamo di lui, e si manifesta di sua propria volontà, non siamo noi che pensiamo a lui, è proprio lui una buona volta”.
A fine lettura resta la voglia di leggere (Rocco Carbone, nel mio caso, che non conosco) o di rileggere (Pia Pera, che ho invece spesso frequentato), anche se le parole di Trevi ci lascano l’impressione di conoscerli ormai entrambi, capaci come sono di dar corpo alla convinzione che l’incontro, “l’apparire dell’altro non è l’epifania di una reale alterità, ma significa l’emergere di una parte nascosta, o rimossa, della coscienza”. Anche della nostra coscienza.
* Sogni e favole. Un apprendistato, Ponte alle Grazie 2019, in queste note il 26 maggio 2019
**Pia Pera, Al giardino ancora non l’ho detto, Ponte alle Grazie 2016, in queste note il 30 agosto 2016
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.