Marco Belpoliti, Pianura, Einaudi 2021 (pp. 288, euro 19,50)
Non è una guida, o un resoconto di viaggio: i capitoli si susseguono secondo un ordine che non è quello geografico, e non c’è una meta finale (non a caso è un “eccetera” la parola – anzi, l’immagine della parola manoscritta – che conclude il racconto). Si intuisce che a dettare la sequenza non sono state contiguità nello spazio ma nella memoria – anche visiva: le pagine sono cosparse di schizzi dell’autore. È il sentimento dei luoghi ad animare il discorso. Ciò che fa dell’omogeneo e astratto territorio un insieme di luoghi, appunto. Se la divagazione è quindi lo stile che anima la scrittura, il filo della memoria personale, autobiografica, è la ragione del testo che nei paesaggi, nelle cose, nelle persone trova i necessari pretesti, i riferimenti che lo precedono e ai quali torna. Spesso scavando nel passato, più o meno lontano. Leggendo nella pianura i segni della centuriazione romana o individuandovi le strutture determinate dalla sua vicenda geologica. Più spesso soffermandosi su monumenti, grandi e celebrati, come il duomo di Modena o il Tempio Malatestiano di Rimini, o piccoli e dimenticati, apparentemente insignificanti e pure in grado di restituire peculiarità locali ormai pressoché illeggibili: è il caso dei pispiò, quei cunei in muratura che tamponavano gli anfratti dei palazzi impedendo di farne vespasiani (pispiò: “non fai più la pipì”).
Il vicino e il lontano, il grande e il piccolo, il visibile e l’invisibile, il tutto legato da un soffuso colore di malinconia dolce, che non crea indifferenza ma, all’opposto, un’attenzione curiosa, come alla ricerca sempre di una rivelazione: questo divagare con un occhio alla finitudine, di tutto, di tutti – nella pianura “lo smisurato contiene dentro di sé la propria misura” –, ricorda altre pagine. Certo quelle dei Narratori delle pianure e del Viaggio verso la foce di Celati, ma anche altre: del Danubio di Magris, per esempio, o di certo Sebald. Autori, anche quelli, di saggi che sono romanzi. Magon, è il nome di quel sentimento che, per dir meglio, “non è proprio un sentimento, ma qualcosa che viene prima del sentimento, che lo orienta e gli dà forma”; una “forma di dispiacere” che ha a che fare con il clima della pianura, i suoi inverni gelidi, le sue estati soffocanti, e la nebbia, la nebbia soprattutto. “Ansiosamente malinconico”: ecco “una bellissima definizione del magon”. Condizione contermine a quella della nostalgia, se si vuole: “Pianura, nostalgia e magone sono una cosa sola”. Uno stato d’animo che avvolge i luoghi, le vicende che vi sono legate, ma anche le persone, scomparse o tuttora viventi che siano (morte e vita non sono drasticamente separate nell’aura di questo ritorno ai luoghi in cui si è nati): Luigi Ghirri e Gianni Celati sono evocati con la medesima attenzione, con la stessa capacità di individuare i tratti della loro singolarità (come avviene in Trevi, il Trevi di Due vite e di Sogni e favole, ne parliamo qui) che tra le altre evocava, proprio come fa anche Belpoliti, la figura di Cesare Garboli). Folgorante la nota dedicata alle immagini di Ghirri, che si direbbero provenienti dal “luogo magico dell’infanzia” e per questo “ci colpiscono senza però ferirci”, segno di un “incanto”, di un “mistero” che si coniugano a un “inquietante tranquillità”, e altrettanto felice la notazione che “In Gianni [Celati] gli stati di depressione sono quasi sempre accompagnati da una specie di furia contro le restrizioni dell’esistenza, che lo fa combattere con gli altri e anche con se stesso, e lo obbliga a viaggiare e a camminare”: l’ha del resto ammesso Celati stesso che “prima di scrivere lui cammina molto a piedi, sino a stancarsi, poi torna a casa e si mette a scrivere”. Una frase, questa, che rende ben conto del periodare disteso, dello “stile semplice” che caratterizza la scrittura, della sua vicinanza al parlato, il che da un lato richiama, sia pure alla lontana, l’eloquio degli “emiliani” (da Celati, appunto, a Cavazzoni, Cornia, Benati, Nori, Livi, presenze ricorrenti in queste note di lettura), dall’altro si giustifica nell’essere sempre un racconto rivolto a un tu, che ha condiviso esperienze umane e culturali con l’autore ma resta innominato. E inevitabilmente, come spesso capita nelle pagine degli scrittori che ricorrono alla seconda persona, la scelta apre a una vicinanza al lettore, a un suo coinvolgimento che lo fa sentire partecipe di questo viaggio nella pianura, nello spazio ma ancor più nel tempo della pianura, perché “La modernità non ha abitato la pianura nonostante le villette geometrili e i capannoni industriali delle periferie, o le nuove stalle prefabbricate. La pianura non ha tempo (…). Nonostante tutto è rimasta uguale a se stessa: piatta, è davvero piatta, e chi si alza al di sopra di lei commette un grave gesto di presunzione”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.