Byung-Chul Han, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi 2021 (pp. 85, euro 13)
“Se le sofferenze vengono lasciate solo alla medicina, ci sfugge il loro carattere di segni”. Se corri dal medico ad ogni malessere stai barando con te stesso, se la medicalizzazione si fa prassi diffusa è la società che rivela una falla e dunque compensa facendoci vivere in “un’anestesia permanente” che “derealizza il mondo e fa apparire plausibile e ragionevole evitare “qualsiasi circostanza dolorosa. Perfino le pene d’amore sono diventate sospette”: un innamoramento che faccia soffrire va immediatamente rifiutato, così come il conflitto. Non solo nella vita privata, anche in politica, dove perciò prevalgono “il conformismo e la pressione al consenso”. Non c’è alternativa, dunque mettiti l’anima in pace, non soffrire per come vanno le cose. Non importa se intanto quella che teniamo in vita è sempre più “una democrazia palliativa”.
Bisogna andarci piano con le citazioni, quando si legge questo filosofo: la stringatezza del suo discorso, la densità dei suoi argomenti rischiano di farti scivolare in una riproduzione uno a uno di quel che dice. E dunque, andiamo per punti: è il negativo in quanto tale che la nostra società rigetta. Con la conseguenza di considerare obbligatorio l’ottimismo (“La nuova formula di dominio recita: Sii felice”), ma soprattutto lo spirito competitivo: “L’ideologia neoliberista della resilienza trasforma le esperienze traumatiche in catalizzatori di un aumento della prestazione”. Parole che suonano familiari di questi tempi, in cui gli stati, i popoli, si sentono chiamare ogni momento a dimostrare di eccellere in quelle due specialità che il “Piano nazionale di ripresa e resilienza”, appunto, racchiude nelle due erre del suo acronimo. E resilienti significa anche disposti a tacerlo, il dolore, qualora se ne sia aggrediti: parlarne significherebbe riconoscergli i tratti di una passione, quando l’unica ammessa è se mai il desiderio (ossessivo) di piacere, di accumulare like. Desiderio cui non sfuggono la cultura e l’arte, ridotte così a certificare l’esistente nel generale girotondo della “compiacenza” (che fa rima con esperienza, ma ne è la negazione: se si preclude ogni irruzione dello spiacevole, e del doloroso, se ci si tutela da ogni contatto con l’Altro, la creatività non ha altra via che produrre “variazioni dell’Uguale”).
Non migliore destino tocca alla politica, dal momento che “Le condizioni da migliorare non sono sociali, bensì psichiche” e “L’assoluta medicalizzazione e farmacologizzazione del dolore – ma anche la sua mediatizzazione: vedi reality e pianti in essi esibiti – impediscono che esso si faccia linguaggio, anzi critica”. Che assuma una dimensione sociale, insomma, perché quel che alimenta il desiderio di cambiamento sociale è il “dolore percepito insieme” (dimensione obliterata dalla crisi irreversibile dei riti, come lo stesso autore ha illustrato in La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, Nottetempo 2021).
In conclusione, e tralasciando diramazioni del discorso che si confrontano con Jünger, Agamben, Heidegger e molti altri, non sappiamo supporre – noi che viviamo dopo che “Dio è morto” – significati profondi e capacità di insegnamento nel dolore, ma questo non ci impedisce di deprecarne la riduzione a pura negatività e il tentativo che ne consegue di rimuoverlo dalla nostra vita. Perché non possiamo non riconoscere che “La profonda felicità resta inaccessibile a chi non è aperto al dolore”, essendo che, come diceva Nietzsche, la felicità e l’infelicità sono “due sorelle, e gemelle, che diventano grandi insieme o (…) restano piccole insieme”. E il dolore – Il dolore, questo il titolo di un breve scritto di Naipaul da poco pubblicato da Adelphi – “fa parte del tessuto stesso della vita. È sempre sulla soglia. L’amore impreziosisce i ricordi, e la vita; il dolore che ci aspetta è proporzionato a quell’amore. E inevitabile”. Sempre accanto a noi, per quanto lo si possa ignorare (viene in mente il Bajani di Un bene al mondo, in cui il dolore – il dolore di ciascuno, perché nessuno ne è esente – assume la forma visibile del cane che, compagno fedele o importuno o feroce che sia, ci segue ovunque, sempre. Come la nostra ombra). Perché non si può non riconoscere – lo diceva Freud – “la necessità biologica e psicologica della sofferenza nell’economia della vita umana” Un pensiero critico, e perciò stesso dissonante – quello di Byung Chul Han –, che aspira tuttavia ad essere ampiamente condiviso e non predilige quindi i labirinti dello specialismo filosofico né disdegna di confrontarsi con l’attualità, con la pandemia “in cui la vita s’irrigidisce diventando mera sopravvivenza”. Senonché, “Più la vita è sopravvivenza, più si ha paura della morte”, proprio quando il contagio “rende di nuovo visibile la morte da noi meticolosamente rimossa e sfrattata”. Ma l’autore ce l’ha spiegato, del resto: “La vita che perseguita e scaccia la propria negatività elimina sé stessa” e “Chi vuole sconfiggere ogni dolore dovrà anche abolire la morte. Ma una vita senza morte né dolore non è umana, bensì non morta”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.