George Simenon, La mano, Adelphi 2021 (pp. 172, euro 18)
C’è il morto, non un assassino. Eppure si legge fino alla fine con il fiato sospeso.
Donald vive una vita di cui si sente prigioniero, ma non è ribellione la sua, è solo scontentezza, una scontentezza di sé che viene da lontano. Non è innamorato di Mona, la moglie dell’amico. Non è innamorato di nessuna donna. Si accontenta di Isabel, la moglie. Remissiva, ma giudicante: “mi era capitato di essere sgarbato, ingiusto, ridicolo o che so io, con lei o con le nostre figlie. Neanche una parola. Il suo sorriso era indelebile”, “quel suo terribile sorriso che perdona o che…”: sposato da anni, lui non la sa decifrare, lei gli sa leggere dentro. Non le sfugge l’indifferenza e insieme l’invidia che lo trattengono dal soccorrere l’amico che si è perso in una tempesta di neve, a pochi passa dalla loro casa.
Simenon fa emergere da pennellate successive il carattere sfuggente e contraddittorio dei personaggi, mette a nudo le faglie sotterranee che dividono queste persone per bene, agiate, rispettabili. Se Isabel non fa che perfezionare, nel corso del racconto, il proprio silenzioso quanto implacabile esame della condotta del marito, questo è indotto dagli eventi – anche le proprie scelte non sa viverle che come eventi – a scavare in sé stesso, a dover ammettere che fin dall’infanzia è stato abitato da un indistinto immaginario di onnipotenza: “Avrei voluto fare tutto, essere tutto, osare tutto, guardare in faccia la gente e dire…”, e invece la sua vita si è svolta all’insegna di una rinuncia prudente, tormentata sempre, però, dal terrore del giudizio degli altri, come del proprio del resto. Perché Donald, nella sua sostanziale anaffettività, è un appassionato denigratore di sé stesso. È uno di quei narcisisti che recentemente Vittorio Lingiardi (Arcipelago N. Variazioni sul narcisismo, Einaudi) ha definito di “pelle sottile”: convinti di una loro sostanziale eccellenza, che tuttavia resta sottotraccia, insicura, tanto da risolversi in molti casi in “sentimenti di inadeguatezza, incompetenza e inefficacia”, o in una mai dichiarata invidia per chi è capace di non lasciarsi condizionare dal giudizio degli altri”. Un circolo vizioso, da cui non sanno come uscire. È il caso di Donald: il suo desiderio di una donna diversa dalla moglie, femmina e non madre, si risolve subito in delusione, anche se “lei rappresenta tutto ciò che per quarantacinque anni non (ha) avuto, tutto ciò da cui per paura (si) è tenuto lontano”. Un ennesimo scacco, che si consuma naturalmente sotto gli occhi di Isabel, capace di smontare senza una parola lo spirito di ribellione che il marito crede a un certo punto di aver saputo concepire.
Il finale è tragico. Forse non necessario. L’assassino e la sua vittima, alla fine, ci sono, ma un uxoricidio, a conclusione di una storia simile, è più tragico di quanto sarebbe stato lasciare i personaggi nel loro muto, quotidiano inferno?