Emmanuel Carrère, Yoga, Adelphi 2021, (pp. 312, euro 20)
“Fra il mio progetto iniziale di un libricino arguto e accattivante sullo yoga e il libro che (…) ho cominciato a mettere insieme (…) sono successe molte cose imprevedibili, alcune atroci”. “ Ora sono passati sei mesi e il libro è finito”.
Che cos’è successo in questi sei mesi? Un corso di yoga e il proposito di scriverne, appunto, ma poi un’interruzione inaspettata, drammatica: l’attentato a Charlie Hebdo, e, ancor più drammatica, la caduta in uno stato mentale che richiede il ricovero e trattamenti drastici; ma ne esce, l’autore-personaggio: un soggiorno a Leros, isola asilo di rifugiati, e siamo all’epilogo: “Finché puoi, continui a non morire. Continui a non morire, ma non ci metti nessun entusiasmo. Non ci credi più. Sei convinto di non avere più niente da giocarti, e che non succederà più niente. Invece un giorno succede qualcosa. L’ignoto, desiderato e temuto, assume le fattezze di un’ignota particolare”. Happy end di una trama irraccontabile: l’autofiction pare essersi qui risolta – quanto ai fatti almeno – in autobiografia, ma l’ultimo romanzo di Carrère non si propone di dare una trama alla vita, di racchiuderla in un prima, un durante e una fine – come fanno o si continua nonostante tutto a credere debbano fare i romanzi. Ciò che ci offre è piuttosto un brano – o, meglio, alcuni brani in successione – di esistenza: un romanzo in scala uno a uno con la vita, ma solo a tratti, non alla maniera di Knausgård però (La mia battaglia, Feltrinelli 2014-2017). Nessun desiderio di dire tutto quel che è accaduto, giorno per giorno, momento per momento, ma di scrivere quel che ha contato in quel cammino di miglioramento di sé – dettato dalla “voglia di condurre una vita più coerente, unificata, meno inquieta” – ”, che il protagonista identifica come un proprio tratto caratterizzante anche se continuamente contraddetto dall’altro polo della sua personalità: “il mio unico, vero problema (certamente innegabile, ma comunque un problema da ricchi) era un ego ingombrante, dispotico, di cui aspiravo a ridurre il potere, e la meditazione è fatta appunto per questo”. La meditazione: sono una quindicina le definizioni che di essa via via se ne danno, fino a giungere, verso la fine, non a una sintesi, ma solo a un elenco. È in ogni caso per imparare a praticarla che si fa yoga, e si fa yoga – lo si ribadisce più volte – per sconfiggere la prevalenza dell’ego. Senza grandi risultati, comunque: la meditazione dovrebbe metterci “al corrente dell’esistenza altrui (…) Se non lo fa, se resta una faccenda fra noi e noi, allora non serve a niente: l’ennesimo giochino narcisistico”, che è quello che il protagonista – ossia Emmanuel – ha paura che la meditazione sia, almeno per lui.
È in questo rimuginare, più che negli eventi, che si direbbe stia la sostanza del romanzo, l’humus da cui la narrazione trae alimento. Una continua autosservazione che tuttavia non taglia fuori il lettore, anzi: è capitato a me ma potrebbe capitare anche a te, è il sottotesto che percorre il racconto dell’esperienza vissuta al corso di yoga, una condivisione che si interrompe poi, quando lo scenario diventa quello dell’ospedale psichiatrico (con diagnosi di disturbo bipolare e depressione grave e relativi elettrochoc), ma anche lì la volontà di dire esattamente quel che gli è successo e come l’ha vissuto tiene vivo il patto con chi legge, un patto che sembra in ogni caso sottintendere un presupposto: se è capitato a me, va da sé: è interessante. Altro che ridimensionamento dell’ego. Ma del resto l’autore aveva ammesso la propria incorreggibilità, con onestà (e un po’ di autocompiacimento?), e dunque… Occorre prenderlo così com’è, dargli credito che è una di quelle persone “che raccontano l’esperienza umana attraverso la propria” – come diceva in un’intervista al Tuttolibri della “Stampa” lo scorso 22 maggio. E dunque conviene godere delle pagine che non di rado interrompono il rovello dell’egocentrico infelice e il procedere apparentemente casuale – sgangherato, si sarebbe a volte tentati di dire – dell’esposizione dandoci i saggi di scrittura in cui riconosciamo il miglior Carrère. Un esempio per tutti: Martha Argerich, ventenne, che suona la polacca Eroica di Chopin, seria, concentrata, ma a un certo punto sorridente, di un sorriso che “viene al tempo stesso dall’infanzia e dalla musica, un sorriso di pura gioia. Dura esattamente cinque secondi, dal minuto 5’30” al minuto 5’35”, ma in quei cinque secondi hai intravisto il paradiso”.
Può capitare di interrompere la lettura per andare su YouTube a cercare di vederlo, quel paradiso, per poi girare la pagina e sentirselo dire: “Immagino che, dopo aver letto il capitolo precedente, abbiate digitato ‘marta argerich polacca eroica” e che l’abbiate guardato anche voi”. Già, l’abbiamo fatto, e non siamo stati gli unici: Merci à Emmanuel Carrère – dice uno dei commenti all’esibizione della giovane pianista –, qui page 336 de son roman “Yoga” passe de l’Ombre à la Joie Pure à 5’30 de cette vidéo.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.