Michel Foucault, Discipline, poteri, verità. Detti e scritti 1970-1984, Marietti 1820, 2021 (pp. 264, euro 22)
Mentre non mancano ragioni per un Ritorno a Jean-Paul Sartre, come recita il titolo di un recente libro di Massimo Recalcati (ne parliamo qui), altrettanto convincenti sono le iniziative volte a richiamare l’attenzione su colui che gli fu successore, come alcuni sostengono, quale intellettuale engagée: dalla ripubblicazione di Io, Pierre Rivière (ne parliamo qui) un paio d’anni fa a quella recente della biografia di Michel Foucault, il filosofo del secolo, secondo Didier Eribon (Feltrinelli 2021), dall’uscita di Medicina e biopolitica. La salute pubblica e il controllo sociale, che riunisce alcune sue conferenze del 1974 (Donzelli 2021) alle riprese del suo pensiero che la pandemia e le misure adottate hanno stimolato, con Agamben e Zagrebelsky, e altre accese polemiche (fra tutte quella tra Paolo Flores d’Arcais, direttore di “Micromega”, e il filosofo Roberto Esposito, nel volume 8 del 2020).
È in questo quadro che si inscrive il libro curato da Mauro Bertani e Valeria Zini, uno di quei libri la cui postfazione può esser utilmente letta prima di affrontare un testo frammentato e ricco di riprese come questo, che raccoglie alcune delle prove del “giornalismo filosofico” di Foucault, documenti di una vocazione che ha accompagnato il suo lavoro intellettuale: “probabilmente nessun altro – ci fa notare Mauro Bertani –, nel corso del XX secolo ha scritto quanto lui per giornali, riviste, semplici pamphlets, a volte addirittura tracts [volantini], mirando al rifiuto della legge del nome proprio”. Espressione, questa, di una personale visione del ruolo dell’intellettuale, produttore di strumenti “destinati a cambiare il nostro modo di pensare”, “forza materiale” cui la filosofia non può rinunciare, pur nella consapevolezza del “carattere contingente e provvisorio di tutto ciò che viene intronizzato come sistema normativo”, come quadro “entro cui le nostre esistenze, la nostra libertà, il nostro stesso pensiero, vengono imprigionati, per rendere così possibili nuovi modi di pensiero, nuove forme di vita”. “Diagnosticare il presente” è il presupposto necessario di una “trasformazione possibile del presente” stesso: questo lo scopo di fondo dell’intellettuale, quale che sia il tema o l’avvenimento al quale applica la sua analisi. I progressi della genetica, ad esempio, sono dimostrazione del fatto che “il sapere non è fatto per consolare”, ma anzi “disillude, rende inquieti, incide, ferisce”, privandoci in questo caso della fiducia nel fatto che “riprodursi fosse (…) un mezzo per prolungarsi in qualche modo aldilà di sé stess(i), e di compensare la morte”, mentre la sessualità e la morte stessa, “sua compagna”, “non sono che espedienti per assicurare ancora e sempre la riproduzione”: la “disillusione biologica e cellulare – dopo quelle arrecate da Copernico, Darwin e Freud – (…) c’insegna che i dadi ci governano”. Doversi convincere che “non c’è un senso, ma un programma e una produzione” determina un “grande sconvolgimento del sapere”, tale da imporre di “imparare a pensare in modo radicalmente nuovo”. Che è poi il fine cui hanno teso le grandi indagini foucaultiane sulla follia, la sorveglianza, la punizione: è a partire dal manicomio, concretamente frequentato, che si pone al ricercatore il problema del potere, quel potere che si configura oggi come un potere di “normalizzazione” tanto pervasivo da rivelarsi come la fonte, e non la derivazione, del potere dello Stato; è a partire dalle carceri, pure direttamente conosciute, che si può mettere a fuoco l’attuale “modo di punire”, “che si trova nelle società capitalistiche ed anche in quelle socialiste” dove, “tra l’analisi del potere dello Stato borghese e la tesi del suo declino futuro, mancano l’analisi, la critica, la demolizione, il rovesciamento dei meccanismi di potere”. Storico e filosofo che rompe gli schemi delle discipline, Foucault rivolge domande inaggirabili agli attuali detentori di saperi che, nati dal potere, esercitano un potere: ricostruire la vicenda di Pierre Rivière è stato “un modo per dire a chi opera nel campo psi in generale (…): ebbene, esistete da centocinquant’anni, ed ecco un caso contemporaneo alla vostra nascita. (…) Siete attrezzati meglio per parlarne rispetto ai vostri colleghi del XIX secolo?”
Domande del genere, Foucault ne è consapevole, hanno suscitato l’imbarazzata reazione degli uomini preposti alla custodia della salute (mentale, in particolare) e dell’ordine, quasi che l’autore avesse proposto un nuovo elogio della follia e una sostanziale giustificazione della criminalità. Ma altrettanto irricevibile per lui risulta la posizione di lettori che nelle sue opere hanno creduto di cogliere la denuncia di uno stato di cose – derivante dall’economia di mercato o dallo sfruttamento capitalistico – che solo un’altra società potrà cambiare. Non di questo si tratta: “il problema non è tanto definire una posizione politica (…), quanto immaginare e far esistere nuovi schemi di politicizzazione”, più in generale: nuove forme di vita e di relazione, punti di vista e pratiche che possano ridefinire il quadro della nostra esistenza a partire da forme di resistenza, come il femminismo, o da esperienze cui l’omosessualità può dare accesso.
L’imperativo resta quello: “Bisogna scavare per mostrare come le cose sono state storicamente contingenti (…) negare una necessità, pensando che ciò che esiste è lungi dal riempire tutti gli spazi possibili”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.