Vincenzo Levizzani, Il libro delle nuvole. Manuale pratico e teorico per leggere il cielo, il Saggiatore 2021 (pp. 276, euro 22)
“Ora sia il tuo passo / più cauto: a un tiro di sasso / di qui ti si prepara / una più rara scena / (…) Sopra il tetto s’affaccia una nuvola grandiosa”, scriveva Montale, e “nella forma che il caso e il vento danno alle nuvole l’uomo è già intento a riconoscere figure: un veliero, una mano, un elefante…”, notava Calvino.
Nuvole, dicono i poeti, gli scrittori; nubi, invece gli scienziati. Gli inglesi hanno un solo termine, cloud (che tra l’altro, nel web, ha conosciuto fortune recenti); gli italiani due, e nuvole, non c’è che dire, è il termine preferito dalla lingua quotidiana come da quella degli artisti, anche dei pittori, dalle nuvole stilizzate di Giotto, “asservite a un discorso teologico” a quelle enigmaticamente minacciose della Tempesta di Giorgione, senza dimenticare i “nuvoli” di cui parla Leonardo, “creati da umidità infusa per l’aria, la quale si congrega mediante il freddo che con diversi venti è trasportato per l’aria”: definizione scientifica, ma ancora ricca di suggestioni poetiche. Le quali cederanno il passo alla logica scientifica con Cartesio, che si proponeva di “spiegare la natura delle nubi in tal modo che non rimanga più nessun motivo di stupore”. Una scelta decisa, una perdita forse: “In principio tutto era vivo”, scrive Paul Auster: “Anche i più piccoli oggetti erano dotati di un cuore pulsante, e perfino le nuvole avevano un nome”. Ma un nome ce l’hanno ancora, le nuvole, anche se non serve a nominarle incantati, ma a classificarle, secondo i principi della “fenologia”, la scienza delle nubi: i termini attuali echeggiano quelli ideati a inizio Ottocento da un inglese, Luke Howard, e impiegati anche da Goethe nel suo saggio La forma delle nuvole.
Il discorso iniziale, ricco di riferimenti, e suggestivo, lascia poi il campo – come del resto il titolo prometteva – a capitoli che affrontano il tema come si deve, pur senza mai cadere in linguaggi astrusi, in ciò sostenuti da immagini di cieli, col bello e il cattivo tempo. Offrendo nozioni spesso sorprendenti su aspetti e argomenti che credevamo naturali, nel senso dell’ovvietà, della familiarità (le nubi che vediamo, e che la meteorologia considera, si trovano tutte “confinate in un sottile strato che si trova al di sotto dei 20 km di quota”, fulmine e lampo, che spesso distinguiamo, in vario modo, “sono esattamente la stessa cosa” e via di questo passo).
Ma la tropicalizzazione del clima e i fenomeni estremi, che portano le nubi a scaricare in 48 ore l’acqua di che cade si solito in un mese, come quest’estate in Germania? E i chicchi di grandine grossi come palline da tennis in grado di ridurre a un colabrodo la carlinga di un Boeing? Anche queste attualissime, legittime domande, trovano risposte in queste pagine, senza tuttavia fornirne di assolute e ultimative, perché “le previsioni stagionali o, peggio, quelle climatiche sono molto aleatorie e non si possono chiamare veramente previsioni, semmai scenari di tipo probabilistico”. Il che non significa che non si debba continuare a pensare, con Mark Twain, che “È meglio dare un’occhiata alle previsioni del tempo prima di pregare per la pioggia”. E che è meglio anche lasciar pretese come quelle dell’Uomo che misura le nuvole esposto da Jan Fabre un paio d’anni fa alla Biennale di Venezia.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.