Bohumil Hrabal, Io e i miei gatti, Guanda 2021 (pp. 180, euro 16)
“Io scrivo sempre di quelle cose straordinarie che mi sono capitate, e di quelle cose invidiabili che sono capitate agli altri. Per cui il mio punto di partenza è sempre qualcosa di autentico, all’inizio c’è sempre un avvenimento, un’esperienza. Ma il gusto che fa parte dell’essere umano non impedisce che io, con l’aggiunta di un po’ d’immaginazione, non riorganizzi in maniera diversa la successione dei fatti, e che quindi in quell’autenticità io non ci rovesci poi dentro il lievito di una fantasia che vada a precisare meglio i contorni, così come avviene col succo d’uva che si trasforma in vino, o il mosto in birra”.
Una dichiarazione di poetica, quella che leggiamo in apertura, che promette il piacere di leggere il Hrabal che conosciamo, e così parrebbe se ci affidassimo ad alcuni passaggi: “godevo sempre di ottima salute ed ero sempre di buon umore (…) la vita la prendo come Chaplin, come Harold Lloyd”. Sicché, da un carattere simile, non sarebbe potuto che nascere lo scrittore conosciuto come “il re dei comici, uno scrittore al quale spesso le persone riferiscono racconti assurdi e volgari”, di cui lui sa fare materia romanzesca.
Ma non va così. È un altro Hrabal che incontriamo insieme ai suoi gatti, numerosi, sempre più numerosi e invadenti: “E noi, cosa faremo con tutti questi gatti?” non fa che chiedersi la moglie, che con questo intercalare sgomento interrompe il racconto del marito, dettato da un’ossessività ripetitiva che qua e là ricorda Bernhard. L’amore che il protagonista nutre per i gatti è più che corrisposto, almeno così sente lui, ed è un amore che va oltre l’umanizzazione dell’animale, risolvendosi in un’identificazione ricattatoria: quand’è nella sua casa di Praga, lo scrittore non riesce a lavorare perché pensa ai gatti rimasti nella casa di campagna – dove non potrà scrivere con tutti quei gatti addosso – e finisce per raggiungerli, apprensivo della loro sorte, impietosito dalla loro solitudine in cui riconosce la propria, ma soprattutto preso da un senso di colpa che lo riduce a uno stato di disperazione nel quale arriva a immaginare il proprio suicidio, ma anche a concepire – mandante di fatto anche la moglie – l’uccisione cruenta di alcuni dei cuccioli che in continuazione le sue gatte sfornano. Il che non fa che incrementare il senso di colpa, l’idea fissa: gira senza meta sui tram di Praga per cercare di non pensare ai suoi gatti, ai gatti che ha barbaramente ammazzato soprattutto, che lo visitano come fantasmi nella notte, ma gli occhi imploranti delle mucche che lo guardando ai camion che le portano al macello non fanno che riportarlo ai suoi animali.
Man mano si legge, si sente che l’andamento angosciato e angosciante della scrittura è frutto di quella fantasia cui lo scrittore ha annunciato di ricorrere per dare sapore al suo racconto, latamente autobiografico, e si torna a intravedere l’umorismo paradossale dell’autore quando riferisce della guarigione offertagli niente meno che da un incidente stradale che poteva essere mortale: la “fortunata disgrazia” gli appare come la punizione che attendeva per i suoi misfatti ai danni dei suoi gatti, l’inizio di una nuova vita in cui non si sentirà più obbligato a cercare quel che sta dietro l’orizzonte: “sono felice lì dove sto, sono felice semplicemente per il fatto di starci (…) e potermi permettere persino il lusso di non dover pensare a nulla”, di non dover continuare a scrivere forse… E invece non è finita: se non un gatto, sarà un cigno imprigionato nel ghiaccio ma che non vuol farsi salvare a fargli rispuntare in fondo all’anima il suo endemico rovello, e qui è un altro grande praghese ad affiorare: “ancora una volta io ero colpevole, così come lo ero stato in tutta la mia vita, anche se non sapevo perché e di cosa”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.