È morto Gianni Celati, la notte fra il 2 e il 3 gennaio.
Ne rileggiamo qualche pagina, un modo per dargli un saluto.
Una delle prime fra queste Note di lettura (all’inizio del febbraio del 2016) segnalava l’uscita del Meridiano che raccoglie romanzi, cronache e racconti dello scrittore. Fra questi, Verso la foce, del 1989:
“Quand’ero giovane, leggevo sempre, avevo paura di perdermi qualcosa. E adesso ho l’idea che il perso e il trovato vadano nello stesso alveo.
Forse l’unica cosa da capire è quanto siamo estranei e inadatti alla ‘vita piena di pena’, l’unica che c’è (calamità, dolore, morte). E come tutto lavori a dismemorarci, ci aiuti a mettere degli argini, per poter dire che ‘ha i suoi lati buoni’ (…); insomma per dire e mostrare sempre e dovunque che è una cosa tutta diversa da quello che è”.
“Per scrivere devo sempre calmarmi, sedermi o appoggiarmi da qualche parte, e non fare resistenza al tempo che passa.”
“Si è disposti all’osservazione quando si ha voglia di mostrare ad altri quello che si vede. E’ il legame con gli altri che dà colori alle cose, le quali altrimenti appaiono smorte. C’è sempre il vuoto centrale dell’anima da arginare, per quello si seguono immagini viste o sognate, per raccontarle ad altri e respirare un po’ meglio. Ma certuni ti fanno passare subito la voglia di raccontare: loro cercano solo le ‘ragioni’ del mondo, dunque prendono ogni immagine solo come apatica informazione sul funzionamento esterno (…) gli ipocriti civili che pretendono non ci sia nessun vuoto centrale, che tutto vada bene, quasi che loro avessero dentro salda roccia e non un buco, come tutti.”
Più recentemente, alla fine del marzo 2020, abbiamo letto il Celati critico, in Narrative in fuga, uscito alla fine dell’anno precedente, in cui lo scrittore si sofferma, in più di un saggio, sulla figura di Bartleby, lo scrivano di Melville, “imperturbabile e laconico, sordo ad ogni ragionevole persuasione” ma, anche, “inespugnabilmente mite”, “figura di ciò che non può essere salvato” e allo stesso tempo “di chi non ha nessuna voglia di farsi salvare”:
In personaggi come Bartleby di Melville o Wakefield di Hawthorne, “si profila uno stretto legame tra la solitudine in cui si sono smarriti e l’inevitabile caduta cui tutti siamo destinati. Quello è il legame che i linguaggi consolatori debbono spezzare, per nascondere l’angoscia che produce; ma per farlo debbono stimolare una perpetua fuga dal pensiero della nostra caduta. Il laconismo di Bartleby è invece un modo per aderire alla caduta, allo smarrimento dei traffici quotidiani, al destino di alienazione da se stessi, e infine alla propria morte”. Bartleby rappresenta una “figura non mitica ma fraterna, che riporta la vita alla sua insignificanza naturale, perché la fa coincidere col semplice scorrere del tempo ed esaurirsi delle forze.”
“La potenza della scrittura non sta in questa o in quella cosa da dire, ma nel poco o nel niente da dire, in una condizione dove si annulla il dovere di scrivere. Ogni voler dire e dover scrivere è la patetica vittima delle proprie aspettative. La potenza della scrittura sta nella rinuncia al dovere di scrivere, nella sospensione delle aspettative…”.
“Scrivere – ha scritto altrove Celati – è un modo di consumare il tempo, rendendogli l’omaggio che gli è dovuto.”