“È stato addirittura coniato un termine – buonismo – che si attribuisce con grande disinvoltura a qualsiasi cosa che un tempo veniva considerata buona, come avere a cuore gli ultimi, fare beneficenza o contestare chi fa il forte con i deboli (…). Io credo che la maniera più saggia e completa di riabilitare la bontà sia ammettere che la bontà è una forma di intelligenza. La bontà non è un fatto psicologico o morale e tantomeno l’osservanza religiosa di un sistema di regole. La bontà è l’intelligenza di chi non si sente solo al mondo e conosce, rispetta, asseconda la vita in ogni sua forma. In questo senso la parola più adatta per esprimerla è partecipazione: è buono chi partecipa alla vita nel suo complesso. Non solo alla sua. Chi è buono abbraccia il mondo, perché sa comprenderlo nel suo sguardo. La formula della sua intelligenza si traduce in una particolare combinazione di umiltà e fermezza: fare scorrere la vita senza dare preminenza assoluta alla propria, ma senza mai tralasciarla”.