Daria Bignardi, Libri che mi hanno rovinato la vita e altri amori malinconici, Einaudi 2022 (pp. 168, euro 16,50)
“Temevo di ‘fare la figura di quella che pubblica perché va in tv’”: il timore dell’autrice e conduttrice televisiva, ammettiamolo, non era campato per aria. La riluttanza a leggere i romanzi da chi è segnato dalla “lettera scarlatta della tv”, secondo le parole della stessa Bignardi, ha le sue ragioni. Ma dimentichiamo o mettiamo fra parentesi, l’amabile, e non banale, interlocutrice di attori e cantanti, scrittori e politici: questo romanzo ci propone – facendo seguito agli altri libri pubblicati negli ultimi anni, uno per tutti: Storia della mia ansia (Mondadori 2018) –, un’autobiografia fatta di note che si richiamano fra loro, di semplici appunti, si direbbe a volte, che lasciano però emergere con chiarezza alcuni fili conduttori. Primo fra tutti la passione compulsiva per la lettura che restituisce una trama ininterrotta di autori e titoli. Come è logico avvenga, quando l’autore è anche un lettore di questo genere, il racconto della sua vita si intreccia con quello dei romanzi che ha letto, con il modo in cui hanno segnato i suoi giorni, con il posto che hanno via via preso nella sua storia. Innanzitutto quelli amati nonostante, anzi: proprio perché hanno avuto l’effetto richiamato nel titolo ma hanno saputo dare alla lettrice l’impressione di parlare proprio a lei.
“Avevo pensato di scrivere attorno ai libri che mi hanno rovinato la vita senza fare verifiche, lasciando che fosse la memoria, da sola, a far emerger i ricordi (…), ma poi non ho resistito, sono andata a controllare certe date e ho scoperto che la memoria scrive una storia sua”. Una storia che prende le mosse da intuizioni originarie: la certezza che “l’arte deve turbare, e nello stesso tempo svela le nostre paure e i nostri desideri”, e dunque la lettura si presenta come una risorsa irrinunciabile, non importa se indotta dall’ansia della madre che teme gli incidenti che potrebbero capitare se esci a giocare come gli altri. Ed ecco allora un altro riferimento della narrazione: la storia familiare, la bonaria distanza del padre ma soprattutto l’ansia cieca della madre che seguirà la figlia anche oltre l’infanzia (“I miei amici si facevano di eroina e mia madre mi diceva di non mangiare la pizza”, perché era “pesante da digerire”). Il fatto è che “la nostra anima si sceglie i genitori che le sconvolgeranno la vita nel modo in cui era necessario venisse sconvolta perché diventassimo noi stessi e trovassimo la nostra vocazione. La mia anima scelse mia madre”, le sue paure, la sua tristezza, e dunque il rimedio, o quello che poteva apparire tale: una “vita piena di storie e vite degli altri”, una vita dedita alla lettura e poi, come in un’adulta continuazione di quella, la scrittura. “Ho pensato che (…) forse potevo e dovevo scrivere di quelli [fra i libri letti] che mi avevano fatta soffrire, e che forse scrivendone avrei capito qualcosa di me, qualcosa che ho messo a fuoco da poco e che so essere importante”. È così che l’idea di diventare una donna elegante, ossessiva, viziosa prende corpo leggendo Djuna Barnes; l’attrazione per il male, la menzogna e l’autodistruttività trova alimento in Sologub; la “predisposizione al nichilismo” nel Nietzsche di Così parlò Zarathustra, e tutto converge in una “malattia” di cui non si ha coscienza: il piacere di soffrire, il “culto della malinconia” (non la depressione: “è la parola depressione che fa paura. Se la chiamiamo in un altro modo turba di meno”). E l’abitudine all’ansia, compagna della malinconia: “l’ho guardata da fuori, e ora so più o meno conviverci. Farci amicizia è chiedere troppo, sapere che c’è e non prenderla sempre sul serio aiuta a disinnescarla”. Il che potrebbe essere letto come una bella conclusione.
Ma, a parte questo – la domanda era affiorata già nelle prime pagine – ora che “ho letto migliaia di libri, non più compulsivamente ma sempre con passione, e ora che sono uscita dalla fascinazione per ciò che è buio, autodistruttivo, sfigato e infelice”, “mi chiedo: ‘Ma io cosa so fare davvero? Qual è la cosa che mi riesce meglio, la disciplina in cui potrei gareggiare?’”
“Io so far parlare le persone (parole, parole, parole), scrivo, ma c’è una cosa in cui – se esistesse la disciplina olimpica – potrei puntare a primeggiare, ed è leggere velocemente”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.