Caterina Bonvicini, Mediterraneo. A bordo delle navi umanitarie, Einaudi 2022 (pp. 242, euro 16)
“Mi sono resa conto che per raccontare il mediterraneo – immenso, sterminato e vuoto, come ti appare durante una traversata – puoi solo aggrapparti ai dettagli. Una visione del problema dall’alto rende tutti troppo ragionevoli, o troppo irragionevoli. E questo ci fa perdere umanità. I dettagli invece destabilizzano, diventiamo più fragili e quindi più capaci di cogliere la fragilità degli altri. È il dettaglio che agisce davvero su di noi, e ci cambia. (…) La nostra immaginazione è banale perché non conosciamo i dettagli. La nostra immaginazione è pericolosa perché è banale. La nostra immaginazione, banale e pericolosa, è facilmente manipolabile e viene usata contro di noi. E forse i dettagli sono l’unica arma che abbiamo per difenderci. L’unica via per entrare in una tragedia senza accesso e senza testimoni, insondabile”. L’unica via per parlare di donne e uomini ognuno con un nome, una storia, una speranza.
È qualcosa più di una premessa quella che leggiamo in apertura, si tratta piuttosto di un preciso patto con il lettore, in cui l’autrice chiarisce la ragione di fondo delle sue scelte – che cosa raccontare, come raccontarlo –, implicitamente mettendo in guardia il lettore stesso: dovrà tener duro. Perché i dettagli sono tremendi, fin dal primo.
“‘Portavamo a bordo le persone e vedevamo dei morsi sulle gambe (…), all’inizio non capivamo. Sai cos’erano? I segni lasciati dai denti di chi annegava sul fondo del gommone’. Quando si parla di mediterraneo, tutti immaginiamo persone che affogano nella solitudine più totale, in un mare sterminato. Invece si può morire anche in dieci centimetri d’acqua. E nemmeno da soli. Con i piedi dagli altri sopra di te. L’ultimo gesto, il più estremo, è mordere le gambe che hai intorno. Per dire che esisti o che non ce la fai più a esistere. (…) Quindi ci sono persone costrette a fare la traversata in piedi. In piedi sui cadaveri degli altri. Quelli che cadono e non riescono ad alzarsi. Gente destinata a affogare in dieci centimetri di acqua sul fondo di un gommone, acqua mescolata a benzina, urina, pelle e fluidi corporali. Per un attimo, ho fatto fatica anche solo a immaginare. Poi mi sono resa conto che era uno sforzo da niente. Loro vivono e muoiono, noi immaginiamo. (…) Poi mi sono imbarcata e ho visto il distress” [la situazione di pericolo estremo, e l’angoscia che ne deriva] con i miei occhi”.
Non ci sono immagini, servizi giornalistici, articoli di giornale che tengano: “I nostri corpi non hanno idea di quello che succede ai loro, e questo è il primo grande limite all’empatia”.
E il secondo, viene da chiedersi? Se li conoscessimo tutti questi “dettagli”, che cosa cambierebbe? cosa faremmo? Inimmaginabili, certo, ma lo sappiamo che potremmo, dovremmo, immaginarli. Che anche questa notte dovremmo pensare “al viaggio di quella gente al buio, che non sa dove va, non sa cosa succede fuori”, a quelle donne uomini bambini che “stanno là sotto – nella stiva del barcone – al buio, sentono dei rumori e capiscono che sta succedendo qualcosa, ma non sanno cosa. È un naufragio? È arrivata la Guardia Costiera libica? Qualcuno li sta salvando? Hanno urtato qualcosa? Nella stiva non respirano, sono intossicati dal fumo del motore, non ci sono luci. Sentono dei passi, delle voci, della concitazione, quindi si precipitano fuori. Solo che in coperta non c’è spazio, quindi spingono, spingono”.
Non solo durante le operazioni di soccorso, ma in ogni momento “Sei lucidissimo, sempre all’erta, con binocolo e senza – in un mare che non consente contemplazione né davanti a un tramonto né davanti a un’alba – sei lucido di spavento. (…) Quella cosa bianca che va su è giù sarà un’onda o un gommone? È uno spavento calmo (…). Ma è uno spavento continuo (…). È un sentimento che non si può condividere”. Anche se “Un nome in realtà ce l’avrebbe, quel sentimento che abita un qualche fondale dell’anima: senso di responsabilità. Suona un po’ pomposo, ma non in quel contesto (…) Onda o gommone? Solo di questo ti importa. Tutto il resto è un lusso per gente che sta a terra. Perché sei su una barca a vela o su una nave, che loro possono vedere anche da lontano. E sai che potresti non vederli, ammassati in dieci metri. Non vuoi essere la vita che passa davanti e se ne va.”
Non si può render conto di questo libro facendo sintesi dei suoi contenuti, commentandone la scrittura.
Occorre proporne pagine come queste per capire che cosa la letteratura può essere, oggi.
Occorre proporne pagine come queste per capire che la consapevolezza, e la compassione di cui possiamo esser capaci, non hanno una misura data: i morti e i profughi della guerra d’Ucraina non possono oscurare l’olocausto che si perpetua nel Mediterraneo. Riconoscibile come tale non solo per il numero dei morti, ma anche per la politica con cui l’Italia ha risposto ai migranti, in una sostanziale continuità fra i diversi governi succedutisi negli ultimi anni (come documenta il saggio finale di Valerio Nicolosi, autore anche delle fotografie che corredano il libro).
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.