Paola Baratto, Una luce differente, Manni 2022 (pp. 96, euro 13)
«Alle donne impegnate nella ricerca della libertà» sono dedicati i tre racconti che il nuovo libro di Paola Baratto raccoglie. A donne come Vittoria, Lidia, Gemma, diverse fra loro ma accomunate da alcuni tratti essenziali, da una «luce differente» che trascorre da una storia all’altra sul filo di una continuità profonda, sostanziata dai caratteri dei personaggi e dai temi di cui si nutre una poetica riconoscibile da un libro all’altro dell’autrice.
L’esperienza che vivono, tutt’e tre, si realizza in un posto che non è quello in cui vivono abitualmente, e questo scarto gioca un ruolo non secondario nello sguardo che rivolgono ai luoghi e alle persone: la sensazione che prova Vittoria al ritorno nella città natale rimanda a quella di Lidia in visita a un paese di mare e di Gemma trasferitasi quale custode in una casa museo.
Non si dà esperienza fuori luogo, sembrano avvertirci questi racconti: quel di più di vita, quel sedimento prezioso che chiamiamo esperienza è frutto di un confronto serrato, e fecondo, con ciò che ci sta intorno, con ciò con cui siamo capaci di entrare senza preconcetti in relazione lasciandocene sorprendere. E i luoghi non sono semplicemente spazi, non sono definiti solo dalle tre dimensioni. Gioca in essi una quarta dimensione in grado di produrre lo scarto generativo di esperienza: il tempo. Sono sensibili all’ora e alla stagione le protagoniste: alzarsi all’alba e uscire nella città è per Vittoria condizione per affacciarsi «sulle strade, come se fossero nude dormienti incolpevoli», e non diversamente alzarsi presto dà a Lidia «una sensazione pacificante. Mettendo a tacere il brusio dei sensi di colpa e delle urgenze». Mentre Gemma trova «struggente il ritorno delle rondini» e si lascia catturare dallo strepitio delle cicale che le fa «percepire lontananze» mai sperimentate.
Il tempo, dunque, come terreno sul quale si gioca la possibilità di dar senso alla propria vita evitandone la dissipazione nei convenevoli (come il «Che mi racconti?» che invita chi è stato assente ad «asciugare» anni di vita in un’«arida sintesi di pochi titoli») e nella chiacchiera, a costo di «trascurare il fatto che le conversazioni si nutrono anche del superfluo» e che persino quelle «più serie e profonde» non sono esenti da un «sottofondo di frivolezza».
L’esperienza delle protagoniste si concreta nella solitudine ed è sensibile alla desuetudine, secondo una postura che contraddice inclinazioni che possono forse esserci appartenute («Da giovani non ci si interessa a ciò ch’è marginale e non sa di nuovo»), ma che con il passare degli anni hanno cambiato segno, portando – è il caso di Vittoria, per certi aspetti il più complesso dei tre personaggi protagonisti – a privilegiare ambienti che offrono la possibilità di praticare «una tassidermia di sensazioni perdute» ma, si badi, senza per questo attirare nella palude del rimpianto. Li si può piuttosto chiamare «darsene», quegli ambienti, spazi in cui «resiste un’atmosfera inalterabile» e dunque «si può sempre ripescare qualcosa di sommerso», perché sono «indifferenti alle mode che li sopravanzano, non sembrano soffrire la malinconia d’essere lasciati indietro».
È in passaggi come questo che si intravede, senza che sia teorizzata, la certezza che la nostalgia – a differenza di quanto può essere il rimpianto – non è sentimento retrivo, paralizzante, ma memoria che sa farsi immaginazione, risorsa di giudizio, non di rado critico, dell’esistente.
Entro queste coordinate di fondo si dipanano le tre storie.
Il luogo dal quale Vittoria si sente accolta – nonostante l’«indifferenza distratta» pronta a virare in «curiosità ruvida» della proprietaria – è una latteria, stando alla vecchia insegna; un «“alimentari” con annessa caffetteria», di fatto. Uno di quei negozi di quartiere – come il minimarket che compariva in uno dei racconti di Malgrado il vento (in queste note nel luglio dell’anno scorso) – che sanno contrastare l’omologazione degli spazi cittadini, anche se la loro chiusura solo a pochi appare una perdita. Di socialità, di memoria collettiva. Sembra esser stato questo il destino del negozio attiguo alla latteria, un tempo laboratorio d’un tappezziere, e la bottega dell’antiquario dall’altra parte della strada, la cui vetrina lascia «trapelare solo un disordine» che richiama l’immagine dell’«interno d’un ventre, pieno di scarti di case d’altri». Ma le cose non sono solo cose, come non lo sono «gli indumenti degli assenti», nei cui tessuti «resta infeltrita l’evidenza di un’identità». Lo sapeva bene il padre di Vittoria, da poco scomparso, «talmente legato alle sue cose, da far pensare che fosse mosso da una sorta di sentimento “animistico”». È per svuotarne la casa che lei, ormai trapiantata a Parigi, è tornata nella sua città natale. (Un tema ricorrente anche questo, nei racconti di Paola Baratto: torna alla mente l’Elio di un altro dei racconti del libro già citato, per il quale lo sgombero di cantine era un lavoro e insieme l’occasione per filosofeggiare sulle ragioni per cui si conservano o si scartano le cose).
Con la casa e le cose del padre si trova a fare i conti Vittoria: con il tempo, nella sostanza. Il tempo che non lascia intatti nulla e nessuno, che non ha risparmiato la città, “un piccolo museo di circostanze trascorse”, agli occhi della protagonista, nonostante i cambiamenti intervenuti (ma si sa, «Chi torna per poco tempo (…) posa lo sguardo solo su ciò che vuol vedere immutato»), e tanto meno ha ignorato le persone: Vittoria, dopo il suo ritorno, deve prendere atto – sulle orme del Proust del Tempo ritrovato, verrebbe da dire – che è «la mano pesante del tempo» a renderle difficile riconoscere donne e uomini una volta a lei vicini, i quali a loro volta probabilmente stentano a individuare chi sia lei, la sola, forse, ad essere “infestata dai ricordi”. Non altrettanto avviene nella relazione con le cose: quelle si lasciano riconoscere, e a loro modo riconoscono, si sarebbe tentati di dire stando all’emozione che l’incontro con esse suscita: il cartone d’un Gioco dell’oca che le era appartenuto da bambina è solo il primo degli oggetti che Vittoria trova essere stati disseminati dal padre, prima di morire, presso coloro che nel quartiere frequentava ed erano diventati suoi interlocutori abituali: l’ha prevenuta, di fatto, preoccupandosi, prima di andarsene, di garantire un futuro alle cose che l’avevano accompagnato una vita, dai vecchi arredi agli «adorati tomi» che gli confermavano come «il valore della lettura non potesse essere disgiunto dal peso, dall’ingombro di spazio».
È così che il racconto lascia emergere – senza bisogno di esplicitarlo, e dunque tanto più efficacemente dal punto di vista narrativo – la grana del rapporto che ha legato il genitore e la figlia, sensibili entrambi al tempo rappreso nelle cose, divergenti nel dar esito a questa stessa sensibilità: «Devoto com’era a tutto ciò che ha un peso, non poteva intuire la vocazione alla leggerezza. E, soprattutto, non capiva quanto sia difficile restarvi fedele (…) con tutte le macerie che la vita, quando cerchi di passare oltre, ti rimette nelle tasche». Ma, alla fine, pare che anche il padre si sia convertito a quella morale della leggerezza: il presentimento della morte l’ha indotto a “liberare” le cose in cui si era riconosciuto, in cui come tutti aveva creduto di riconoscere la possibilità di durare.
Con un padre assai meno riservato, a suo modo rispettoso, ha invece a che fare Lidia, figlia di un uomo di teatro nel quale si assommano, in un ritratto magistrale, i tratti del narcisista, del «mattatore dell’ego», rivelatisi tanto più seduttivi e al tempo stesso prevaricatori quanto più è avanzata l’età.
Il paesaggio non è più quello urbano. I colori di un paese ligure – nel quale si è recata per trovare una sistemazione adatta al soggiorno del padre in vista di un prossimo festival teatrale – si intrecciano alle sensazioni della protagonista, che sa far tesoro, nelle prime ore del mattino, di «una zona franca che le è lecito considerare esclusivamente sua» in contrasto con la giornata pervasa dal «dovere d’intuire, assecondare, privilegiare le esigenze degli altri». Tra queste, la cura dell’autobiografia che il Maestro sta scrivendo, non propriamente un dovere in verità, perché a Lidia «è sempre piaciuto scrivere. E finalmente, ora, è legittimata a farlo, benché al servizio di altri». È lui, il Maestro, a raccontarsi, con il suo «tono, sottilmente sornione» e la propensione al «ritocco della mistificazione» quando si tratta di riferire i fatti, ma anche nello scrivere per procura che le viene richiesto Lidia sa trovare una «zona franca»: «suoi sono la scelta del ritmo, il lavoro sugli aggettivi, l’invenzione degli incipit e delle chiose», e la «ricerca della parole più appropriate», che devono «entrare nel periodo con naturalezza, senza forzature, ma dando risalto all’insieme, come una tessera in un mosaico». È la definizione di uno stile che si fa sostanza della scrittura, che riassume nelle scelte di chi scrive un modo di atteggiarsi, di stare al mondo, fatto in egual misura di discrezione e di precisione. “Anch’io ho le parole”, troverà la forza di dirsi Lidia. La «Lidia segreta» che s’è convinta di dover preservare i propri canoni dall’assimilazione a quelli del padre e che si proporrà di resistere, a suo modo, alla decisione del suo insensibile ed egoista committente di affidare la cura dell’autobiografia a un editor professionista: lo «coverà come un segreto» nonostante tutto, Lidia, quel «lavoro fervido e accurato» che la scrittura è per lei.
Non è un padre, ma un celebrato poeta ottocentesco l’uomo al quale deve rapportarsi Gemma. «Ammalata di casa», secondo la nonna, «“Hikikomori”» secondo la zia, amante di «termini stilosi», la protagonista del terzo racconto rimanda indefinitamente le uscite col risultato di non abbandonare mai la propria casa: si tratta di qualcosa di più che semplice pigrizia, è «una specie di malattia, di stanchezza di vivere a vent’anni». Ma non è una ragazza triste, Gemma. Si appaga dei colori del giardino, del volo delle rondini che han fatto il nido sotto il portico, delle sensazioni che la pioggia o l’afa le suscitano: una sorta di Emily Dickinson, non a caso citata in esergo, fervidamente quieta nel suo giardino.
Il giardino di Gemma è quello della casa natale del poeta, che è stata musealizzata e dunque richiede una custode che vi abiti: chi meglio di Gemma? Lei, pur perplessa sulle prime, non si lascia inquietare da una solitudine attraversata da ticchettii e scricchiolii e non ha paura dei fantasmi: con quello che sembra abitare il ritratto del poeta ci parla addirittura, senza soggezione, «in un tono sfacciatamente familiare», senza lesinargli qualche rimprovero, quello soprattutto di aver costretto la figlia a una vita anonima al servizio esclusivo del genitore. E dunque, nonostante trovi “paradossale” che si sia potuto credere “Che una malata di casa possa guarire restando chiusa in un’altra casa”, si adatta alla sua nuova condizione, che la fa sentire “un’assente giustificata” e le fornisce occasioni di dialogo, non tanto con i visitatori che giungono in comitiva, quanto con due vecchie donne del paese che fanno della casa museo e della compagnia della ragazza una meta e un’occasione ideale non “per passare il tempo, ma per dargli un senso”. Una regola in cui Gemma non può non riconoscersi e che nella più anziana delle due scopre essersi concretizzata nella partecipazione, come staffetta, alla Resistenza. Del tutto logico dunque che le due donne condividano la considerazione della giovane custode per Maria Liberta, la figlia del poeta, una presenza che si fa sempre più affine, e significativa: “Mi domando se lei abita, ancora, nelle cose”, è il pensiero che alla fine Gemma le rivolge.
Sono donne, in conclusione, ad abitare le pagine di questo libro. Gli uomini citati nella dedica già richiamata, insieme alle “donne impegnate nella ricerca della libertà”, sono quelli che “vogliono esserne complici”: non pare ve ne sia traccia nei tre racconti. Racconti di donne, in cui gli uomini compaiono quali padri in modi e misure diverse soverchiatori, o comunque estranei al sentire delle figlie. Oppure sono esseri inconsistenti e fasulli, come l’attivista politico un tempo compagno di scuola di Vittoria, o l’antiquario, che esibisce «una posa démodé che ricorda i frequentatori di night”, con la sua «studiata flemma» e quegli «occhi piccoli velati di sazietà». Ma è nella delineazione delle fisionomie e dei caratteri dei personaggi minori femminili che si evidenzia con forza la qualità della scrittura: alla proprietaria della latteria, ad esempio, «è rimasto il disinvolto disincanto delle bellezze appariscenti, assuefatte all’abitudine d’essere oggetto d’attenzione», per cui «non dà l’impressione d’aver rinunciato ad una certa idea di se stessa»; la parrucchiera «mantiene l’aria lievemente seccata di certi artigiani, quando trattano il cliente come se li distogliesse da occupazioni più importanti»; Annica, la «giovane scandinava dai verdi occhi gelidi e un po’ folli», che accompagna il vecchio, ancora prestigioso teatrante, è sempre tesa a «mettere alla prova la tenuta della sua apparente imperturbabilità e dimostrare la propria forza», occupata nell’«esercizio quotidiano (…) che consiste nel calpestare fragilità altrui per corroborare la proprie sicurezze».
Non si tratta di bravura, di prove riuscite grazie al mestiere: per creare ritratti di questo genere occorre quel guardare diversamente che è proprio di chi scrive. Anche quando non scrive.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.