Valeria Parrella, La Fortuna, Feltrinelli 2022 (pp. 142, euro 16)
Ci sono romanzi storici che usurpano questa definizione: fatti di vicende, personaggi, idee di oggi, semplicemente trasposti nel passato, ridotto così a semplice scenario di un palcoscenico sul quale recitano attori che potrebbero vivere solo nel nostro tempo. Altri romanzi a buon diritto riconducibili al genere, invece, sanno evocare in modo suggestivo e insieme rigoroso ciò che non è più, senza tuttavia rinunciare a richiamare – più o meno esplicitamente ma rispondendo a un’intenzionalità evidente – il presente, spesso con finalità critiche, o satiriche, di presa distanza comunque dal nostro mondo, dalla nostra società.
Questo romanzo è ancora altro: romanzo storico che vive del passato, ci accompagna in un percorso che si dipana tra eventi storici documentati e sensibilità compatibili con l’epoca, senza cedere alla tentazione di strizzare l’occhio al tempo in cui viviamo ma raccontandoci comunque di avventure umane in grado di parlarci. Tra queste, l’avventura della formazione, l’avventura che anche l’individuo dall’esistenza meno avventurosa possibile non può non vivere e proprio per questo sa tradursi in una vicenda in grado di farci percepire con realismo e partecipazione un mondo che non è più, ma in qualche modo sopravvive in luoghi che tuttora frequentiamo e, profondamente segnati dalle vicende trascorse, appartengono al presente senza che in essi il passato si sia potuto cancellare.
Parrella racconta dell’infanzia e della prima giovinezza di Lucio, pupillo di Plinio, il Vecchio, ammiraglio della flotta romana di stanza a Miseno, porto naturale nel golfo di Napoli. La Fortuna è appunto il nome della nave ammiraglia, da lui comandata, la Fortuna che “aiuta chi le si affida”, insegna Plinio al discepolo (non “gli audaci”, come gli farà dire in un’epistola successiva, il nipote, Plinio il Giovane). Ma Lucio è anche altro, segnato com’è da due tratti che lo distinguono, nel corpo e nell’anima. Il diciassettenne, nato durate uno dei terremoti frequentemente avvertiti nella zona (“Il terremoto era attorno a noi, sempre, faceva parte della natura”), ha dalla nascita un “occhio storto”, la sua vista è menomata. Non si tratta di un difetto, lo rassicura un sacerdote del culto di Iside, ma di un privilegio: quello di manifestare sin dall’aspetto fisico il lato notturno della vita, che in tutti, anche se “per comodità” non se ne danno pensiero, si accompagna a quello diurno; del resto – lo incoraggerà Plinio con una delle sue sentenze pronunciate con apparente noncuranza – “un limite è un limite solo se uno lo sente come un limite, sennò non è niente”. E difatti, Lucio non se ne lascia condizionare, ma il suo ardimento non è incoscienza, bensì consapevolezza che ogni paura, quale che sia il suo oggetto, non ci dice che una cosa: “ci ricorda che non siamo dei e che possiamo morire (…) ogni paura (è) un piccolo gioco con la morte: un avvistamento a cui possiamo decidere o meno di dar seguito”. E lui decide – questo il secondo tratto che lo contraddistingue – di seguire a tutti i costi il suo desiderio. Il desiderio di essere uomo di mare, di godere della felicità che solo il trovarsi fra le onde gli dona, ossia di “dare senso alla vita”, non un senso astratto, ma quello che produce l’“afferrare la felicità nell’istante in cui essa si posa su di noi come si fa con le farfalle”. Mandato a Roma a studiare, dal grande Quintiliano, non rinuncia, e sarà Plinio ad assecondare la sua aspirazione, esistenziale prima che professionale, avendo lui capito che “c’è un nucleo duro di giovinezza sepolto dentro ogni adulto e ogni vecchio e che, forse, fa di noi quello che siamo e che saremo”.
È così che Lucio si trova, nell’ultima parte del romanzo, densa di immagini terribili e coinvolgenti, là dove le prima pagine ci avevano preannunciato: sul mare, al comando della nave ammiraglia – assegnatogli da Plinio stesso, che ha voluto andar a vedere da vicino quel che sta accadendo e com’è noto non farà ritorno –, immerso in una coltre di fumo e cenere, sotto una pioggia di lapilli incandescenti, alla presa con un maremoto che ingoia metà della flotta. È l’eruzione del Vesuvio che distrugge Ercolano e Pompei, il “prodigio” inimmaginabile dal quale è impossibile fuggire: perché noi siamo esattamente la nostra sorte, e non è che ce la possiamo togliere di dosso quando non ci sta più bene come la maschera alla fine della tragedia”. E dunque non resta che viverla, la “catastrofe”, quando ci raggiunge, e accettarla per quel che è e impone: “nella catastrofe non è possibile alcuna postura, nessuna grandezza. È eroe chi sopravvie a quel momento, che lo conserva e continua a vivere”. È quello che farà Lucio, che passeggiando fra le ginestre tornate a fiorire sulla terra bruciata dalla lava rievoca quel che ha vissuto: “È stata una lotta per il tempo. Agli dei non interessa perché essi vivono per sempre: i custodi del tempo siamo noi, che lo cerchiamo nella sabbia della clessidra, lo inseguiamo sulla pietra della meridiana, e lo aspettiamo impazienti osservando le stelle. Senza gli uomini il tempo non esiste, invece noi non esistiamo che nel tempo, e allora lo conserviamo nell’arco eretto per un trionfo, sul rilievo di una stele”. Ma non c’è solo la memoria monumentale, pubblica. C’è anche una memoria intima, personale, che si ravviva “quando un uomo si ferma e ricorda. E in quella memoria germoglia il futuro come fiore del deserto”.
Rimandi letterari e considerazioni esistenziali affiorano così dalla passione del passato che ha motivato e sostanzia questo breve romanzo.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.