Nita Prose, La cameriera, La nave di Teseo 2022 (pp. 447, euro 21)
“Dicono che è imbarazzante. Distaccata, meticolosa. Una maniaca della pulizia. Una tipa stramba. E peggio”. Sì, in effetti, Molly, cameriera ai piani del Regency Grand Hotel è fatta a modo suo, basta poco per rendersi conto che è diversa, ed è questa sua diversità che pagina dopo pagina impariamo a capire, tanto da farci provare una simpatia crescente per la protagonista, una sorta di versione femminile dell’indimenticabile Forrest Gump di Zemeckis. Ma quello che caratterizza Molly non è un ritardo mentale: l’autrice non lo rivela, ma al lettore basta mettere in fila gli atteggiamenti del personaggio per individuarvi i segni della cosiddetta sindrome di Asperger.
Molly prende tutto alla lettera. Ha un suo senso dell’umorismo, del tutto divergente da quello comunemente diffuso; non sa decifrare espressioni del volto e gesti delle persone, per cui – molto consapevolmente – ammette che “La verità è che mi capita spesso di essere in difficoltà nei contesti sociali: è come se tutti facessero un gioco complesso con regole difficili che gli altri padroneggiano, mentre per me è sempre come se giocassi per la prima volta. (…) spesso quando voglio fare un complimento fraintendo il linguaggio del corpo, dico la cosa sbagliata al momento sbagliato”. E si crea un circolo vizioso: la leggera stranezza di Molly attira gli sguardi, e questo rinfocola il suo disagio: “Sono abituata alla gente che rivolge lo sguardo più in là, o intorno a me, ma lei [la detective con cui malauguratamente avrà a che fare] “mi guarda dritto negli occhi – come se mi attraversasse con lo sguardo – in un modo profondamente inquietante”.
Molly è rimasta quella che era da bambina, non fosse per l’affettuosa terapia cui l’esperienza di vita della nonna, e il buon senso derivatone, la sottopongono: “È grazie a mia nonna se so che un sorriso non significa necessariamente che qualcuno è felice. A volte le persone sorridono perché si stanno facendo beffe di te” (“Stai sorridendo con me o di me?” è la domanda ricorrente che la ragazza rivolge ai suoi interlocutori).
La nonna, cameriera anche lei, ma in una casa privata, ha sostituito la madre – irresponsabile tossicodipendente – della piccola Molly, che non ha nemmeno conosciuto il padre: “scomparve nello stesso momento di mia madre, quando ero solo una frugoletta. Come era solita dire la nonna, cioè quando avevo un’età tra i sei mesi e un anno. Fu allora che lei mi prese in affido e noi due diventammo una persona sola, la nonna e io, io e la nonna. Finché la morte ci separò”. Eh già, il tempo è passato e la nonna se n’è andata, ma la sua voce continua a guidare i passi della nipote con massime semplici e immortali che sono tutte variazioni su un unico tema: “Non c’è motivo di torturarsi i nervi quando il finale è inevitabile. Quello che sarà sarà”. Perché non c’è che una preghiera da rivolgere al Signore: “concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare. Dammi il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscerne la differenza”.
Ma l’insegnamento della nonna non si limita a indicazioni così generali, bensì si traduce in consigli molto concreti: “Mia nonna diceva sempre che il modo migliore per sentirsi bene è mettersi a pulire! Se ti senti triste, impugna un piumino per la polvere!” Dev’essere per questo che Molly ha scelto il suo mestiere: “Quando rassetto una camera, la passo da cima a fondo. La lascio come nuova, uno splendore – nessuna superficie non strofinata, nessuna sporcizia trascurata. La pulizia è come la devozione, era solita dire la nonna, e credo che sia un principio di vita migliore di molti altri”. Perché – diceva la nonna – “Una casa pulita, un corpo pulito e una compagnia pulita… Sai dove porta tutto questo? (…) A una coscienza pulita. A una bella vita pulita”.
E dunque l’adesione di Molly al regolamento, anzi: all’etica, del personale assegnato alla cura delle camere dell’hotel, ha un carattere totalizzante, militante si sarebbe tentati di dire: “La mia divisa è la mia libertà. Il mantello dell’invisibilità. (…) Quando indosso la mia divisa da cameriera, non con lo stile sciatto di Downton Abbey e nemmeno con il cliché della coniglietta di Playboy (…) – mi sento completa”. Né inferiore è l’attenzione che questa esemplare cameriera dedica al rapporto con gli ospiti: “‘Sobria cortesia, servizio clienti invisibile ma presente’, dice spesso il signor Snow”, il direttore dell’albergo, nei suoi corsi di formazione per il personale.
Molly non è comunque fatta solo di questa completa coincidenza con il suo ruolo. Sa a suo modo amministrarsi. Sa che basta respirare a fondo per scaccia i pensieri importuni o dolorosi, come quello del primo, unico fidanzato della sua vita, che trafugatole il bancomat è scomparso con i risparmi suoi e della nonna, senza tuttavia uccidere in lei il desiderio di amare ed essere amata. E sarà proprio l’attrazione per l’affascinante barman dell’hotel a trascinarla in un intrigo che la trasforma in una pedina del traffico di droga che si svolge nascostamente nell’hotel e aveva nel cliente che proprio lei, Molly, trova morto nel suo letto, il suo organizzatore. È così che Molly, per una serie di atteggiamenti da lei candidamente fraintesi e un seguito di disgraziate circostanze, finisce con l’essere incriminata in quanto complice del giro di cocaina ed esecutrice dell’omicidio. Ma non è sola: a soccorrerla c’è l’attempato e imponente signor Preston, portiere dell’hotel, vedovo, una figlia avvocato, amico in gioventù (qualcosa di più che amico, si saprà) della nonna: “il genere che si vorrebbe come padre, per quanto non sia ferrata sull’argomento, dato che non ho mai avuto un padre nella vita”.
All’ultima parte del romanzo non manca nulla per tener desta l’attenzione del lettore: dal ritmo incalzante alla suspense, fino all’abile e coordinata messa in scena degli amici di Molly e di lei stessa che porta alla soluzione finale (non priva di un’inattesa sorpresa), e ad un’acquisizione decisiva: “Se tutto ciò mi ha insegnato qualcosa, è che c’è un potere dentro di me di cui avevo ignorato l’esistenza. Sapevo che avevo un potere nelle mie mani: per pulire, per rimuovere lo sporco, per strofinare, per disinfettare, per mettere a posto le cose. Ora però so che c’è un potere anche altrove – nella mia mente. E nel mio cuore”.
Si chiude il libro sorridenti, grati all’autrice per l’abile confezione di questa storia in cui i buoni vincono sui cattivi, e l’onestà nativa e ingenua della protagonista si rivela una bussola capace di orientare anche i tutori della legge.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.