Gabriele Tergit, Gli Effinger. Una saga berlinese, Einaudi 2022 (pp. 914, euro 24)
La storia della Germania dal 1878 al 1948, da Bismarck a Hitler, attraverso quella di una famiglia ebraica, o meglio, di due – oltre agli Effinger, i Goldschmidt-Opner –, le cui vicende si susseguono incrociandosi per oltre 900 pagine e non è certo il caso di ripercorrere in una breve nota. Quattro generazioni, un profluvio di personaggi opportunamente mappati nei due alberi genealogici che precedono il testo.
Inevitabilmente paragonato al primo grande romanzo di Thomas Mann (tanto da poter essere definito “i Buddenbrook ebraici”) per il suo contenuto e i temi trattati ma anche perché là dove termina il romanzo di Mann, nel 1877, inizia quello di Tergit, uscito cinquant’anni dopo, prodotto di un lavoro di scrittura e riscrittura durato un ventennio, trascorso in esilio per sfuggire alle persecuzioni naziste.
Una differenza balza comunque agli occhi già dopo qualche capitolo: le ampie volute narrative di Mann, la linearità con la quale procede il suo romanzo, qui sono sostituiti da un andamento a episodi, che qualcuno ha paragonato a una sceneggiatura cinematografica e che sottintendono una concezione della storia in cui la ripetizione rappresenta la regola di fondo, anche se cambiamenti epocali cadenzano la narrazione. A partire dal passaggio dal mondo delle botteghe e dell’artigianato a quello delle fabbriche e della grande industria, un mondo nel quale “operosità, buonsenso e parsimonia” non servono più e si profila già con evidenza il confronto fra economia reale e finanza: “Con una fabbrica – osserva Paul Effinger, che pure è il protagonista di una fortunata ascesa industriale – non si guadagna di più che a far fruttare il capitale da sé, senza muovere un dito”.
Il mondo nel quale la storia si svolge è comunque quello creato dalla grande industria: la caotica Berlino di fine ’800, in cui le fabbriche sono costruite fra i caseggiati, le sue vie desolate, l’umanità che vi si aggira, evocano immagini alla Grosz.
E mentre la vicenda prosegue – evocando da un lato le espressioni del conflitto di classe, dell’emancipazione della donna, del confronto fra tradizionalismo e secolarizzazione, e dall’altro dando ampio spazio alla descrizione di feste, pranzi, in ambienti di cui si evoca dettagliatamente il gusto kitsch degli arredi e delle suppellettili –, si rendono sempre più evidenti le manifestazioni dell’antisemitismo, a lungo sottovalutato da coloro che ne sarebbero stati le prime vittime: “Cosa volete che ci importi se un partitucolo d’infimo ordine non ci considera tedeschi. L’importane è che noi ci sentiamo tali”. Saranno i fatti a contraddire un simile ottimismo, con il fallimento della banca Goldschmidt e il passaggio, nel 1933, della ditta Effinger “in mani esclusivamente ariane” e la sua conversione produttiva dalle automobili ai carri armati.
“Ho creduto nella bontà umana: è stato l’errore più grave di questa mia vita fallimentare”, sarà il triste bilancio che il vecchio Paul Effinger trarrà nella sua ultima lettera.
Essere accostato ai Buddenbrook rappresenta un titolo di merito, per un romanzo, ma comporta anche il rischio di veder messe in risalto le ragioni che rendono improbabile il confronto.
I Buddenbrook – ha scritto lo stesso Mann – sono un “romanzo sociale mascherato da saga familiare” che “intendeva descrivere la ‘decadenza di una famiglia’, di una singola famiglia tedesca anseatica”, e fin qui il paragone con l’opera di Tergit reggerebbe. Ma “in seguito – prosegue Mann – si vide che nelle sue immagini, nei suoi caratteri, nei suoi stati d’animo e destini l’intera borghesia europea aveva riconosciuto se stessa e la propria situazione spirituale alla svolta del secolo”.
Al di là della travagliata storia editoriale, non è stata questa la sorte degli Effinger, la cui autrice d’altro canto aveva di mira un altro scopo: “Ciò che mi auguro – scrisse infatti in una lettera citata nella postfazione – è che ogni ebreo tedesco dica: sì, eravamo così (…) e che diano il libro in mano ai figli con le parole: perché sappiate com’era”.