Bernardo Zannoni, I miei stupidi intenti, Sellerio 2022 (pp. 248, euro 16)
Vivono in tane arredate come appartamenti, cucinano, allevano galline e coltivano l’orto, parlano e, in alcuni casi, scrivono. Ma non sono gli animali del tutto umanizzati di Disney, né sono – come nella Favola selvaggia di Filelfo – portatori di una saggezza che gli uomini dell’Antropocene hanno perduto. E neanche, pur essendo caratterizzati secondo i clichés tradizionali – a partire dalla volpe, che non può che essere la più furba – sono ridotti a rappresentanti delle doti e dei vizi degli uomini. Zannoni non è Fedro. I suoi animali restano animali e il gusto della narrazione prevale su ogni possibile morale della favola. Che pure non manca, ma resta ancorata a una domanda che, per quanto non esplicitata, percorre il romanzo e riguarda la pretesa certezza che un confine netto distingua gli animali dagli uomini. Sono numerosi gli episodi nei quali il protagonista – Archy, una faina – si pone la questione. Quando, per esempio, non acconsente alla proposta del fratello maggiore di rispondere alla loro disperata fame divorando il più piccolo e debole di loro e ne deve quindi trarre una prima, decisiva conclusione: “Da lì cominciai a capire che fra me e Leroy c’era una leggera, orribile differenza: era più animale di me”.
Eppure, è lo stesso Archy, fattosi più grandicello e innamoratosi della sorella Louise, a rendersi conto che, giunti alla stagione degli amori, “il potentissimo legame fra me e lei era quell’attimo di godimento che provavamo, e dietro quello il nulla”. Così come, venduto dalla madre all’usuraio Solomon, la volpe scaltrissima e calcolatrice, resisterà per un po’ all’ordine del padrone di ammazzare una delle galline affidate alla sua custodia, ma scoprirà poi in sé stesso “un desiderio invincibile, mosso dal sangue”.
E quel che accade alla giovane faina non è estraneo neanche alla vecchia volpe, che pur rimanendo padrone diventa anche maestro del giovane animale che lo serve e, mentre questo scopre per suo tramite le cose fondamentali della vita, a partire dal fatto che tutti si muore –, sente crescere in sé il desiderio di trasmettere la propria esperienza e il proprio sapere. Gli insegna a leggere e a scrivere perciò, facendone l’estensore della propria biografia, fino allora solo abbozzata ma indilazionabile ora che la vecchiaia si avvicina a grandi passi.
L’acculturazione, la sensibilità di Archy non sono tuttavia premesse di una sua umanizzazione. L’orizzonte della sua vicenda non è l’emancipazione dalla condizione animale: ancora una volta pressato dalla fame, Archy non esiterà ad azzannare un vecchio cinghiale, né più né meno come gli altri animali che approfittano della sua debolezza e dovrà ammettere la mancanza di ogni rimorso: “Non vivevo un momento così sereno da quando avevo ucciso la gallina, senza dubbi, o domande. Il presente era ritornato ad essere il mio mondo per qualche attimo, e fuori da quello, il nulla. Ero un animale. Ero felice”. Eccola la differenza: vivere nel e del presente, senza il pensiero del passato né del futuro che invece tormenta gli uomini. Ma è una differenza che, appunto, per il protagonista si annulla solo “per qualche attimo: l’oscillazione tra il versante morale, compassionevole, e quello puramente ferino resta inscritta nella natura di questi animali, ma ciò che traspare dal racconto, più della loro irriducibilità a una dimensione umana si direbbe sia piuttosto il sospetto che la loro ferinità debba riconoscersi come aspetto ineliminabile dell’umanità stessa. E questo, che può apparire come un sostanziale avvicinamento tra mondo animale e mondo umano, trova coronamento nella descrizione dell’atteggiamento che di fronte alla morte assumono i personaggi della storia i quali, pur animali, non sono nient’affatto inconsapevoli, come generalmente si pretende, della propria fine. La volpe, per tutta la vita convinta che Dio le riserverà una sorte di salvezza, giunta al momento finale sprofonderà nel terrore, che solo la vicinanza affettuosa della faina da lei educata saprà mitigare, e quest’ultima, non diversamente, concluderà la propria vita dominata da un “ultimo stupido intento: scappare, come tutti, dall’inevitabile”, senza sapersi rassegnare, ormai agonizzante, a “quest’ultimo spavento, che si affronta da soli”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.