W.G. Sebald, Tessiture di sogno, Adelphi 2022 (pp. 243, euro 19)
“L’inconfondibile figura del viandante solitario che si guarda d’attorno”: Sebald pensava a uno scrittore con il quale si è per molti versi identificato, Robert Walser, quando scrisse – in Soggiorno in una casa di campagna – che era la sua immagine a tornargli alla mente appena sospendeva per un attimo il suo lavoro quotidiano, ed è appunto la figura del viandante che ci conduce, nella prima parte di questo libro, a visitare luoghi, come sempre nei viaggi di Sebald fuorimano, della Corsica. Luoghi scelti per la rispondenza con il proprio stato d’animo, in questo caso la “sensazione di essere libero e senza legami”, “senz’altra occupazione sino alla fine della vita se non lo studio del tempo: del tempo passato e di quello che passa”: un definizione sintetica del tema, della ragione stessa, della scrittura di un autore che del tempo – nella duplice accezione segnalata – , della memoria e della storia, dell’osservazione disincantata e critica di ciò che si definisce contemporaneo ha fatto lo scopo del proprio lavoro.
Non fare nulla se non studiare il tempo, dunque. Senonché, precisa, “poiché nessuno può davvero permanere in sé stesso e tutti noi dobbiamo sempre prefiggerci qualcosa di più o meno ragionevole, all’obiettivo da me vagheggiato – trascorrere alcuni degli ultimi anni senza impegni di sorta – subentrò l’impellente bisogno di riempire in qualche modo il pomeriggio”. È in questa dialettica, tra calma determinazione e ineliminabile irrequietezza che si collocano le perlustrazioni e i resoconti dello scrittore, resoconti di “istanti curiosamente dilatati, di cui ci si ricorda dopo tanti anni”, trascorsi in luoghi che si sono imposti alla sua sensibilità e sui quali ha perciò raccolto notizie attinenti al loro passato, senza per altro contare molto su questa ricerca, dato che non è molto ciò che “sappiamo noi – a priori – del corso della Storia, che procede secondo una legge la cui logica rimane indecifrabile”, tale per cui “neanche a posteriori riusciamo a scoprire come davvero stessero le cose prima”.
La visita a un vecchio, trascurato cimitero, si fa occasione per declinare lo “studio del tempo” nella riflessione sul rapporto tra vivi e morti, idealmente collocati una volta, questi ultimi, non “nelle sicure lontananze dell’aldilà, bensì membri del parentado pur sempre presenti, che si trovavano soltanto in una situazione particolare”. Un immaginario del tutto diverso da quello oggi dominante, nel quale “i morti debbono essere tolti di mezzo il più in fretta possibile e nella maniera più radicale” e, fra i vivi, “ciascuno è rimpiazzabile e, tutto sommato, in soprannumero fin dalla nascita”, in forza di una “metamorfosi del genere umano” che porterà alla dissoluzione di tutto ciò che è stato “in una massa uniforme, irriconoscibile e muta”, “muovendo da un presente immemore verso un futuro che l’intelligenza di nessun individuo riuscirà più a comprendere”.
Il pessimismo antropologico che connota l’intera opera di Sebald trova, anche in queste pagine, un’espressione radicale, coniugandosi con un generale senso di perdita che si estende alle “popolazioni arboree dell’isola”, tranne che per alcune zone interne, “scomparse quasi interamente”, sicché, a riprova della sostanziale inconoscibilità del passato, “oggi nulla è più come doveva essere stato un tempo”. Né il futuro appare sotto una luce meno cupa, come leggiamo nelle pagine dei Saggi che vengono dopo: riconsiderando le vicende della letteratura tedesca successiva al secondo conflitto mondiale, Sebald ne rileva la sostanziale reticenza, l’incapacità di comprendere, e comunicare – restando legata alla “forma del romanzo legata alla visione borghese del mondo – che “la catastrofe collettiva [registratasi in quegli anni] segna il punto in cui la storia rischia di ricadere nella storia naturale”. Pochi autori, fra cui Alexander Kluge, hanno saputo restare fedeli all’“ideale del vero, racchiuso nella forma di un resoconto di assoluta sobrietà”, così resistendo alla “facoltà umana di reprimere tutti quei ricordi che potrebbero essere d’ostacolo, in un modo o nell’altro, alla continuazione della vita”, e dunque portando allo scoperto la “struttura razionalistica [sul piano economico e organizzativo, prima che su quello ideologico] di ciò che milioni di persone hanno vissuto come un irrazionale colpo del destino”. Ma gli scrittori, e la letteratura – Günter Grass compreso, sia pure con alcuni distinguo –, non sono che un “indicatore di come i tedeschi fossero riusciti a evitare una fase di melanconia collettiva”, inevitabile compagna dell’elaborazione del lutto che la catastrofe innescata avrebbe richiesto. Un atteggiamento generalizzato dunque, dettato da un elementare istinto di conservazione, di fronte al quale non appare tuttavia aggirabile l’“interrogativo se mai si possa, scrivendo in funzione vicaria per tutti gli altri, che non lo fanno, offrire un contributo alla terapia della nazione”.
Solo in Peter Weiss, e nel suo L’istruttoria, si può riconoscere “il processo della scrittura come lotta contro quella ‘tecnica dell’oblio’” che cancella il ricordo di “quelli che hanno rinunciato a tutto senza lasciarsi nulla alle spalle”, e come mezzo per dimostrare “che a rendere possibile il genocidio furono dati di fatto, accorgimenti, forme organizzative che nel nostro sistema economico valgono ancor oggi” e sono il segno che “la nostra specie è incapace di imparare dai propri errori”. Constatazioni che si possono rintracciare anche in Jean Améry, l’autore di Intellettuale a Auschwitz, “rimasto il solo ad aver denunciato l’oscenità di una società deformata sul piano psichico e sociale, al pari dello scandalo per cui la Storia può riprendere tranquillamente il suo corso come se nulla fosse accaduto”. Uno scandalo tragicamente sentito anche da Primo Levi, che fu per qualche tempo nello stesso lager in cui era stato deportato Améry. Kafka, Nabokov, Chatwin sono fra gli altri scrittori di cui poi Sebald si occupa, per giungere a una conclusione che sembra aprire uno spiraglio in una visione del nostro mondo ormai irrimediabilmente lontano da “quello scorcio del XVIII secolo, nel quale la speranza che fosse ancora possibile emendare e illuminare il genere umano”, ed è la scrittura ad aprire questo spiraglio, perché occorre riconoscere che “Vi sono molte forme di scrittura; ma è solo in quella letteraria che si può procedere, al di là della registrazione dei fatti e al di là della scienza, a un tentativo di restituzione”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.