Tomaso Montanari, Cassandra è ancora muta, Edizioni Gruppo Abele 2022 (pp. 176, euro 14)
“Un libro dedicato al silenzio del pensiero critico nell’Italia di oggi”. La quale non è cambiata da quando è stato pubblicato la prima volta, per vedere adesso, a cinque anni di distanza, questa nuova edizione. Anzi: la pandemia e poi la guerra lo hanno zittito ulteriormente, com’era accaduto a Cassandra, condannata a vedere il futuro senza mai essere creduta. Come accade all’“intellettuale pubblico”, studioso che accumula conoscenza ma “vuole rimanere nel mondo, e condividere quella conoscenza con tutti”, senza rinchiudersi nella visione ristretta e alla comunicazione circoscritta cui costringerebbe la specializzazione, accettando piuttosto la non appartenenza, la “solitudine di chi dice la verità”. Se affermazioni del genere possono destare il sospetto di trovarsi di fronte all’ennesimo capitolo dell’eterno “dibattito tra intellettuali sugli intellettuali”, come diceva Norberto Bobbio, è dallo stesso che Montanari trae la sua “bussola”: “il primo compito degli intellettuali – scriveva infatti Bobbio – dovrebbe essere quello di impedire che il monopolio della forza diventi anche il monopolio della verità”.
Ovvero, se si vuole aggiornare l’indicazione ai tempi del famigerato TINA (There is no alternative), quello di “mostrare che c’è sempre un’alternativa: sempre”, al di là della “retorica dell’ultima spiaggia e dell’uomo della provvidenza”. Un compito evidentemente impossibile per intellettuali che, di fatto, hanno “introiettato la scala di valori e il metro di giudizio della realtà che avrebbero dovuto criticare” (e magari avevano criticato, per anni, costruendo su quella stessa critica la loro figura pubblica…). Discorso che si può estendere ai giornali e agli altri organi di comunicazione, o quantomeno alla maggioranza di essi, che “percepiscono sé stessi non come luoghi della critica, ma come luoghi di costruzione del senso di appartenenza a un ‘sistema’”. Il che finisce con il portare a giudicare (sia da parte dei giornalisti che dei lettori) “estremistico, sconveniente, personalistico qualunque vero tentativo di ‘criticare chi ci governa’”. Senza dire delle università, che l’autore conosce dall’interno, trasformate “in scuole di conformismo e di opportunismo”, realtà parallele e sostanzialmente separate in una situazione come quella italiana, nella quale l’analfabetismo funzionale è la condizione di oltre il 47% della popolazione (in Svizzera è il 15, il che può non stupire, non fosse che in Messico si assesta attorno al 43…), incapace di comprendere compiutamente e quindi di riferire i contenuti di un testo, come può essere l’articolo di giornale che pure ci si è sforzati di leggere. Un dato che riesce difficile non accostare a quello dell’astensione elettorale e va ricondotto a una serie di fattori che lo determinano. Tra i quali una più generale carenza culturale nella quale gioca senz’altro un ruolo il fatto che “le biblioteche e gli archivi sono in punto di morte a causa della mancanza di fondi ordinari e di personale”, che “d’estate alcuni grandi musei chiudono perché non c’è l’aria condizionata”, che una miriade di chiese storiche non sono visitabili (circostanza sulla quale lo stesso Montanari si è soffermato nel suo Chiese chiuse (in queste note lo scorso 28 gennaio).
Musei, chiese, edifici monumentali che per la loro sopravvivenza possono contare se mai sulla propria trasformazione in location attrattive di mostre o di “eventi”, anche privati (altro tema sul quale Montanari interviene spesso stigmatizzando usi impropri del patrimonio). Un andazzo che trova un preciso corrispettivo nella funzione di molti intellettuali: “da umanisti (cioè portatori di senso critico) a esperti, e poi a consulenti e quindi a piazzisti di monumenti ridotti a ‘splendide cornici’ in cui – appunto – realizzare suggestivi ‘eventi’”, manifestazioni di un presentismo che non risparmia e anzi “domina la nostra vita intellettuale” e per il quale “non esiste storia, ma solo ‘bellezza’. Una bellezza sempre ‘contemporanea’, perché ‘se è morta non è bellezza [Renzi dixit], al massimo può essere storia dell’arte, ma non suscita emozione’”. Quell’emozione per la quale il visitatore, trasformato in spettatore (declinazione del suo esser consumatore, ossia cliente), è disposto a pagare. E dunque – aggiungiamo – a finanziare la gestione del monumento, altrimenti – stando a una logica aziendalistica, tesa alla valorizzazione del bene nel significato più letterale del termine – fatalmente in perdita… Ma la logica di mercato, in questo campo, si manifesta in un più vasto piano di “brandizzazione del nostro passato e del nostro patrimonio culturale”, inventando “feste medievali” e altre “sagre del passato” spacciate come rivisitazioni storiche e occasioni di un confronto reale con quanto ci ha preceduto. Reale perché in grado di metterci in condizione non di trovarci di fronte all’ennesimo specchio del nostro presente, ma di capire “che è esistito un passato diverso, e che dunque sarà possibile anche un futuro diverso”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.