Marco Balzano, Cosa c’entra la felicità? Una parola e quattro storie, Feltrinelli 2022
“Un racconto sulla felicità e sul potere che possiede di condizionare ogni istante della nostra vita” a partire dalle “immagini originarie che indicano la felicità” nelle lingue che l’autore conosce o sente comunque vicine (greco, latino, ebraico, radici della civiltà occidentale, e inglese, “codice universale del nostro tempo”), e l’etimologia come fecondo punto di vista critico che collega tempi diversi e come strumento per contrastare il deterioramento della lingua, e quindi del pensiero. Questo il programma di lavoro che Balzano si è posto per sondare una parola che è “forse la più soggettiva del vocabolario”, diversa da persona a persona ma anche nelle età della vita “perché a cambiare siamo prima di tutto noi con il nostro orizzonte di desiderio”. Unica invariante: tutti vogliono essere felici.
Quello che ci si potrebbe aspettare è una di quelle rassegne delle posizioni espresse da filosofi e scrittori dall’antichità ad oggi, interessanti, come si dice, ma utili più per arricchire la propria scorta di citazioni che per riflettere sulla vita che concretamente si sta vivendo. E invece è altro quello che ci viene proposto, e non perché manchino i richiami ai pensatori di diverse epoche, ma perché “scopo della ricerca etimologica non è l’erudizione”, ma l’offerta di “rappresentazioni” tra cui scegliere quelle che si possono “calare nel nostro presente”. E su un unico concetto convergono queste rappresentazioni: la felicità non può puntare solo su beni “posizionali”, quelli che ci assicurano – per quanto solo per convenzione sociale, e dunque illusoriamente – uno status nella società dei consumi, ma deve sostanziarsi di beni “relazionali”. Non è un caso che felicità – in greco, latino, ebraico “e, in un modo più particolare, nella lingua inglese” – chiami “sempre in causa l’altro”. Questa la conclusione cui giunge l’esame di significati di eudaimonìa, felicitas, ashrè, happiness, una conclusione cui Pasolini era già arrivato in uno dei suoi Scritti corsari, quando osservava che “L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero”, perché “mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza” e di “falsa eguaglianza”, di “frustrazione sociale” e di felicità “perduta” in nome dello “Sviluppo”. Nulla a che fare con la felicità dei greci, intesa come “un percorso che risveglia la coscienza – rispondendo alla famosa esortazione, “Conosci te stesso”, ma attenzione: è “dagli altri che capiamo chi siamo” – e porta a sbocciare la nostra parte più autentica”. Né ha a che fare con la felicitas che sgorga dalla cura che può gratuitamente informare il rapporto con gli altri, come quello della madre con il suo bambino o, più mediatamente, del maestro con l’allievo, entrambi appagati – felici – di realizzarsi nella crescita altrui, di identificarsi più che nell’io in un noi. Felici in quanto felicitanti. Ma “ognuno interpreta in maniera personale l’afflato a darsi agli altri”: stando alla concezione ebraica l’ashrè, il beato, è colui che non cessa di “andare avanti” sul gioioso cammino in cui può identificarsi la felicità, condizione non estranea alla vita terrena per chi nell’universale aspirazione alla felicità sa scorgere “l’eco di un ricordo di gioia” che, ancor prima di venire al mondo, s’è impresso nella nostra anima. Così Agostino. Un altro filosofo, Emmanuel Lévinas, lo dirà in altro modo: “Disperare della vita ha senso solo perché la vita è, originariamente, felicità”. Alla fine del viaggio, l’happiness, con il senso di puro accadimento che racchiude (to happen significa appunto accadere), sembra riportarci alla concezione della felicità come casuale frutto della fortuna.
Senonché nell’happiness risuona l’eco delle rivoluzioni americana e francese che legarono la felicità alla libertà, all’eguaglianza e alla giustizia, in questo modo andando “fuori dalla sfera personale dell’eudaimonìa, o da quella intima e ancestrale della felicitas, così come da quella comunitaria e metafisica dell’ashrè”. Ma non scongiurando l’antico sospetto che la felicità sia sempre, in qualche misura, e nonostante gli sforzi tesi a conseguirla e il grado di controllo che le tecnologie ci consentono, risultato di eventi e processi che sfuggono alla volontà come alla ragione degli uomini: “La lingua – con quell’happiness – ci ammonisce che il caso continua a esistere e a essere una variabile determinante e insondabile della nostra esperienza”, sgravando “da un certo senso di onnipotenza l’uomo moderno” ma, anche, alleggerendolo “di una felicità che, se solo in capo a lui, diviene un dovere”, perché “è liberatorio pensare che non si deve essere felici a ogni costo, anche perché non dipende tutto e sempre da noi!” e “Non abbiamo sprecato la vita se qualcosa va storto o se il destino ci trascina dove mai vorremmo”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.