A. Tagliapietra, I cani del tempo. Filosofia e icone della pazienza, Donzelli 2022 (pp. 191, euro 34)
Lasciamo da parte i riferimenti, numerosi e puntuali, alla storia del pensiero filosofico e a quella dell’arte, che ricorrono ad ogni pagina. L’originalità di questo libro sta innanzitutto nel fare, e nel costringerci a fare, i conti con una virtù d’altri tempi, la pazienza: “Nella trama della contemporaneità, là dove l’affermazione del progetto ideologico della ragione strumentale votata alla produzione per la produzione sembra giungere a compimento, innervando con virale capillarità e pervicace ostinazione le forme della vita quotidiana, la pazienza appare una virtù del tutto inattuale. (…) L’impazienza può essere ritenuta la cifra contemporanea dell’esperienza soggettiva o, se si vuole, la causa stessa della sua mancanza, vale a dire il movente per cui si inseguono, con sempre maggiore frenesia, situazioni e circostanze che sembrano cariche di esperienze possibili, ma che, una volta raggiunte, non mantengono mai quello che avevano promesso”.
Non è tuttavia una perorazione, o un puro esercizio filosofico a favore della pazienza quello che ci viene offerto: il testo si costruisce sulle immagini che lo intervallano. Immagini di cani, così come li hanno visti pittori di epoche diverse, a partire dai due bracchi di Jacopo da Bassano, ritratto non “di due cani, ma di questi due cani”, colti non in posa ma nell’atteggiamento loro proprio, fatto di attesa e di attenzione. Di pazienza, nella sostanza, ossia di un modo preciso di rapportarsi al tempo. Lo stesso che ritroviamo nel cagnolino che guarda Sant’Agostino nel capolavoro di Carpaccio.
Questo è il punto: “È, il tempo che l’icona del cane esprime in emblema, quello della vita, quello, a termine, vissuto da ciascuno. È il tempo della pazienza e della noia, quella durata che, quando cresciamo, maturiamo e invecchiamo, rimane sempre presso di noi e ci costituisce, giorno dopo giorno, in singolarissima misura. (…) È nel nucleo vitale del nostro essere vivente, insomma in quell’anima che risuona nella parola stessa ‘animale’, che attendiamo, prestiamo attenzione e ricordiamo (…), ossia esprimiamo e figuriamo la nostra esistenza come originariamente e intimamente fatta di tempo”. Ecco la conclusione cui, seguendo percorsi convergenti, giunge il discorso: non siamo gettati nel tempo, ma siamo fatti di tempo, e allora l’antidoto alla noia come all’angoscia indotta dal senso di caducità è la “più semplice forma di pazienza”, che appunto le immagini pittoriche dei cani ci suggeriscono ed è “la più difficile da conseguire nell’epoca in cui viviamo”, perché “si tratta della pazienza come stato di attenzione senza finalità né oggetto, ovvero la disposizione di chi si abbandona all’immanenza della pura durata”. Anziché ritenerla un modo d’essere, di stare al mondo, fuori tempo, “si scoprirà così l’attualità non antropocentrica della pazienza”, una “disciplina dell’attenzione” che fa tutt’uno con “la comprensione della mortalità quale orizzonte comune dei viventi e [la] piena responsabilità nei confronti del tempo vissuto, la disponibilità ospitale alla relazione con gli altri esseri, umani e non umani, il presupposto indispensabile per abitare il mondo avendone finalmente cura”. Una cura che inizia con lo sguardo che al mondo possiamo rivolgere se sappiamo osservare con curiosità ed empatia quello che il cane spesso posa sul paesaggio che gli sta di fronte, dandoci l’impressione che stia pensando. Ma “a cosa pensa, se pensa, un cane? La domanda, liquidata facilmente con l’accusa di antropomorfismo ingenuo (…) è di natura enigmatica, ossia autenticamente filosofica, perché interroga la barra seducente che separa, ma che unisce, l’alterità degli animali umani da quella dei non umani”.
Saper guardare il mondo come lo guarda l’animale, rendersi conto che se ne è capaci, che ci può essere capitato: “Non è affatto sorprendente constatare come la contemplazione del succedersi delle nuvole sullo sfondo smaltato del cielo, dell’andirivieni delle onde sulla superficie del mare, calmo o finanche spumeggiante per la furia dell’imminente tempesta, delle cangianti fiamme che alimentano il fuoco nel camino, ma anche i moti flessuosi della chioma di un albero maestoso o la superficie dei prati accarezzati dal vento – circostanze in apparenza povere di significato – siano sempre fra i pochi spettacoli in grado di rapire la nostra attenzione senza mai rischiare di annoiarci.
In esse, infatti, la percezione concreta del senso, il piacere puro dell’esperienza a cui ci si abbandona senza aspettative, prende il sopravvento sulla ricerca affannosa dei significati, sulla presunzione del possesso e della disponibilità delle cose”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.